Il sentimento più grande, da “L’arrêt de mort”, Blanchot

Il sentimento più grande
(tratto da “L’arrêt de mort”)
una traduzione di Lisa Orlando

 20045859_10203273175187226_2109232981_n 

Tutto questo, forse, durò qualche minuto, o un’ora. La circondavo con le braccia, ero del tutto immobile e lei, immobile, come me. Eppure ci fu un momento in cui mi avvicinai di più, e pur scorgendo la sua mortale freddezza, le dissi: ‘Vieni’. Mi alzai, la presi per mano, anche lei si alzò; notai in quel momento quanto fosse alta. Pochi passi insieme, io e lei; tutti i suoi movimenti avevano la mia stessa docilità. Lasciai che si distendesse, io mi distesi accanto. Il suo volto era lievemente girato dall’altra parte, desideravo guardarlo. Presi il suo capo fra le mani: “Guardami”, le dissi, nella delicatezza più estrema. Lei alzò lo sguardo fino alle mie mani e, subito, a tre o quattro passi da me, vidi ancora la fiamma morta e vuota dei suoi occhi. Con ogni forza, cercai di fissarla, lei pure sembrava farlo, ma all’infinito, dietro di me. Fu allora che, per l’ineffabile nascita di qualcosa, mi chinai su lei: “Non avere paura, ti soffierò sul viso ora”, le dissi. Ma, mentre mi avvicinavo, fece un movimento più rapido; si scostò (o mi respinse). Spesso N. difendeva il (suo) massimo riserbo, ma non lo percepivo come qualcosa che mi veniva sottratto, la mia mancanza di riguardo, invece, ne risultava accresciuta; perfino attraverso la smania, il furore, in me sempre più intimanti, consideravo uno slancio similmente febbrile il suo modo di sopportare, da lontano, la mia impazienza infinita di un tempo comune.

Di certo, mi era affezionata, lo era sempre di più: ma la parola affetto di cosa ci parla? E la parola passione, qual è il suo significato? E la parola delirio? Chi conosce il sentimento più grande? Solo io, e so che è il più gelido, poiché ha trionfato su un’immensa sconfitta, e anche ora trionfa, in ogni momento, sempre, in modo che per esso non vi sia più tempo. […] Non la seguivo come un’ombra, talvolta l’ombra svanisce, ma libera in ogni passo, facendo ciò che voleva; la sua libertà passava sempre attraverso la mia, e se restava sola per un momento, dopo mi ritrovava con più forza, in tutte le infinite domande che sapeva che le avrei posto in quell’istante, e in tutti gli istanti in cui era vissuta sola. Parlo poco, è un fatto noto. Tuttavia in certe ore venivo spinto a parlare da una forza così pressante, mi sentivo come costretto a convertire in parole insignificanti i più semplici dettagli di vita che la mia voce – divenendo l’unico spazio in cui la lasciavo vivere – costringeva anche lei a uscire dal suo silenzio, e le conferiva una specie di certezza, di consistenza fisica che altrimenti le sarebbe mancata. Tutto questo può apparire puerile. Non ha importanza. Tale immaturità fu abbastanza potente da prolungare un’illusione già perduta, e costringere a essere presente ciò che non era più presente. Mi sembra che in quel mormorio ci fosse la gravità di una sola e unica parola, la rievocazione di quel ‘Vieni’ che le avevo detto, e lei era giunta, e non avrebbe mai più potuto allontanarsi.

(M. Blanchot, L’arrêt de mort, Gallimard, Paris 1948, trad. it. di Lisa Orlando.)