Il trauma degli incontri – Lisa Orlando

Il trauma degli incontri

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Sorrideva, quella mattina, camminava e sorrideva, come se il vento avesse liquefatto il verde invernale dei suoi occhi mutandolo in ambra. Aveva il volto rivolto lievemente verso l’alto, guardava i tetti indorarsi al sole, ma svelta, svelta incedeva, senza affanno, lanciandosi nell’aria. Là, oltre i pergolati e i chioschetti, là, oltre una chiazza rossa di rose selvagge, scavando impronte sull’erba ammaliante, ecco che ora, giungeva, al mare. Un suono la colse, un delicato tremolante suono, una voce che farfuglia senza vigore, una voce che canta priva di significato umano, la voce di un’antica sorgente che rampolla dal mare. Lei si portò le mani ai capelli, la brezza glieli aveva scompigliati, e sorrise, ancora. Nulla comprendeva di quel suono, ma le piaceva restare lì, ad ascoltarlo, come fosse il dondolio pacificante di un’attesa.

Il sole pioveva in cunei dorati su tutta la distesa del mare; era in anticipo di più di un’ora; e aspettava, lì, quello che per lei era un inizio bianco. Sotto un cielo lucido, un azzurro spoglio: tutto, di lì a poco, sarebbe stato ridisegnato. Quello stesso mare, il tappeto di sabbia, il passaggio delle nuvole. Echeggianti, sonore, sarebbero nate le immagini nuove, non più mute, non più spente da uno sguardo richiuso nell’antro buio d’uno stesso luogo, ove solo si giace; si schiacciano fiori tra libri di polvere; s’odora un tanfo di legno su una sedia consunta; si pettinano lunghi capelli di stoppa, mentre un rubinetto sgocciola, sgocciola.

Quando verrai – sotto i tuoi occhi – tutto si trasformerà in disegno altro e io sarò pronta a essere presa dal tuo sguardo; afferrata; ghermita; cambiata; a passare in rassegna la forma nuova del tuo volto, la linea altra delle tue labbra; i ricordi che mi porterai, le chiome della memoria di ghiaccio. Quante smorfie, quante lacrime ha indossato la mia vita, lontana da te; lontana, nonostante l’amore. Sono pronta, ora, sì! Non scapperò al rumorio della paura; impavida, senza sprofondare, col corpo eretto sopra la sabbia, sarò qui, alla luce che mi riveste, e mi porta alla superficie illuminandomi il capo. Mi guardo allo specchio: quale felice alleanza tra me e l’esile immagine riflessa; nessun torpore mi scredita, nessun nerofumo mi oscura: pienamente ora posso dire: quella sono io, quella smorfia sul labbro è mia, quel folgorio degli occhi mi appartiene. Sono integra, sono intera. Tu verrai e io non svanirò; tu verrai e io non vacillerò sentendo cambiare l’ordine del mio essere.

E’ l’ora. Dov’è la fioraia dagli occhi di gatto dell’angolo?

Lui così goffo, così rigido nel suo abito grigio, le stava comprando camelie, color rubino, e i nontiscordardimè. Ora procedeva verso il mare in un vacillante cammino; andava, verso lei, ma i piedi annaspavano continuamente nel vuoto, con una continua paura di sviarsi dalla traiettoria, con un’incessante vertigine e timore di caduta. Aveva il volto scolorito e gli occhi rimorti nell’abbattimento di una malinconia, cascanti i muscoli della bocca. Secondo quella donna che ora attraversava la strada insieme a lui, sembrava un Dio, bellissimo, ma bisognoso di aiuto. Che ci faceva un Dio così, pieno di pensosa sublimità?, forse andava ad incontrare qualcuno, forse, lei. Una porta si sarebbe aperta. Una porta che dava sul mare. Regalando fiori, rotto si sarebbe il guscio della solitudine. Un guscio di freddo cristallo gravava da tempo su Lui; tutto s’irrigidiva in un corpo-statua, il nome iniziava a scollarsi dall’angolo della bocca.

Nel cuore della notte è per paura d’amore che si spegne la luce che fiotta giù di sbieco sul corpo dell’altro. Nel cuore della notte, tutto lo spirito per combattere il male del giorno, per scavare nel cuore del caos un’alcova di silenzio, e là ripararsi. Ma quanti giorni restavano per inventarsi la gioia? dopo non aver vissuto il mondo e averlo fissato attraverso le lacrime. Ora che un quaderno si squinterna, e un geranio si schiaccia, e uno specchio si spacca e un ratto in una lanterna dice il fragore del mondo che si apre al respiro del mare.

E lei ora lo stava aspettando sulla sabbia; nuda, bellissima e crudele. Lei, che era la vita e l’odore del vento che rugge in faccia. Lei, che [pur] gli avrebbe portato una luce violetta fumosa di morte.
Ecco le rose selvagge, a pochi metri da te, ecco il ricordo lontano dei tuoi occhi, e che presto mi condurranno tra matasse di nebbia, e poi giù, nel precipizio della mia caduta. Ma continuo, a te, a venire, con lenti movimenti di spola, giù, su, su, giù, come un topo smarrito in un oscuro labirinto, come una piccola fiammella nel sole. Alla rinfusa, svelta, mescolerai il mio volto dove io non potrò più far convergere ciò che sono. Mi porterò la mano ai capelli e me li liscerò; soffierò sopra i palmi e me li strofinerò, e mi dirò che non sono cambiato. Ma tutto sarà vano. Sempre rifletterai apparizioni di me, lontane, e che più non esistono. Sotto il tuo sguardo, sarò ombra, senza scampo. E non avrò specchi dove gonfiarmi il petto, non avrò specchi dove non tentennare la testa, non ci saranno stracci dove ripulire la tetra fuliggine sul mio nome.

Contro il trauma degli incontri non ci sono panacee.

Da un anno, lei schiacciava lacrime sopra guanciali di dolori, nell’alcova, senza lui. Ombre, nere ombre la inseguivano lungo lunghi corridoi; e lei correva, lontano, per incognite rotte, giungendo a grandi deserti, incappando in mari ghiacciati, continuamente lottando contro fantasmi persecutori. Ma ora gli occhi le si erano aperti. Ora di nuovo guardava fuori davanti la finestra: tutto era avvolto in ammanti d’oro. Nulla più anneriva il suo sangue. Aspettava, calma, dinanzi al mare, sopra un letto di sabbia tiepida. La luce vagava errabonda sulle conchiglie luccicanti. E quella coppia d’amanti che ora passeggiava sulla rena, sensualmente abbracciata, bellissima, respirando il mare, era per lei ardimento di vita e insieme spegnimento d’ogni fervida preghiera che s’arrende al cielo, il silenzio di echi sulle croci degli spasimi.

Guarda forte, forte il mio volto, no, non ti strapperò la carne pallida per avere un volto. Guarda i miei occhi che non tremano. Guarda la sana gradazione del rosso sulle mie gote. Guarda le mie mani invecchiate e ruvide e che non metterò dentro le mie tasche. I gabbiani oggi non romperanno il silenzio del cielo, io non affilerò le parole per sfregiarti la bellezza, lasciandoti sanguinare nell’identità. I miei nervi, le mie fibre forti, anche ora? ora ch’arrivi e sorpassi le rose? No! … Non ci sono panacee contro il trauma degli incontri. Né gusci, né ripetizioni d’ore; ogni singolo attimo pericoloso. Levigati in superficie, sotto siamo mucchi d’ossa acuminate. E non si mettono insieme la bianca sostanza con la malinconia pur davanti al mare lucido. Piano, allora. Ci incontreremo piano. Ci sarà un modo per non fare che gli sguardi siano assedi d’occhi. Non vedrò i tuoi capelli scarmigliati, non vedrò il tuo volto scarno, non vedrò il coagulo di sangue sul tuo petto. Scompigliati come palline di mercurio ci amalgameremo. Ora. Che la bolla buia di solitudine s’è dissolta. Ora. Esserci l’uno per l’altro…

Il distacco, la preparazione a salvare le radici, le rivelazioni nei nostri letti soli, i giorni della segretezza e dei nascondigli, i momenti di terrore, i nostri momenti di terrore… hanno avuto termine. Cerco invano il terreno sotto i piedi per venire a te. Mi abbasso il cappello fin sotto il naso per non mostrare le mie lacrime poco virili. Ora che non sono più rintanato; disertando le mie ombre non mi salverò; esposto sotto i tuoi occhi dolcissimi non avrò più volto. Ma ecco. Ora sento l’odore della sabbia bagnata, il profumo delle alghe e delle conchiglie incrostate d’argento, il sale mi si appiccica addosso, il mare bisbiglia come un ticchettio eccitante.

Eccoti, sei lì, che mi vieni incontro, con i capelli presi dal vento non m’infliggi immobilità; come un fiore che cammini; come un angelo di Klee; questa è la salvezza. Questo in fondo è ciò che dà a tutte le paure emozioni incessanti. Andare… andare… all’altro… pur su tizzi accesi, pur senza fiato, pur con l’affanno e i tremiti. E il tuo corpo, ora, ti precede come una lanterna che, lungo un vicolo scuro, tira fuori una cosa dopo l’altra dalle tenebre in un ampio cerchio di luce, e abbaglia il mio antico teschio e il senso d’una nuova alba, bagnata di mare.