Approfondimenti
Io tolgo il nome a Pentesilea
Non cerco d’animare l’inanimato. Né chiamo alla vita un golem, un giocattolo necrofilo. Io vomito sull’anima, io vomito sangue sul nome. C’è chi afferma, Antistene prima di Platone, una distinzione radicale tra il nome e il discorso. Ciò che il discorso definisce e dice, la parete esprimibile del linguaggio, sarebbe escluso dal raggio vocale del nome, che chiama alla Lingua l’indicibile. Il nome sarebbe puramente indicatorio, come in un haiku: “È questo! Questo è questo!”. Ma io sto mettendo il pugno, fino al polso, dentro ciò che linguaggio non è, dentro ciò che è taciuto dalla parola, sto ficcando il braccio nella parola che tace il nome. E non ne tiro fuori niente. Tiro fuori il niente. Ah. Oh. Un grido. Una parola per niente e per nessuno. Passo le dita su un volto già solo tattile: il bianco della carne è ormai una digitazione sui dieci polpastrelli: tante le mie dita, tanto è il volto, che digita, manipolato. Cancellata l’impronta storica della faccia e della mano, vado a toccare la verginità data alla mano e al viso dalla morte e dall’amore alla morte. La peluria leggera delle sopracciglia si fa seguire dall’indice -in questo silenzio che rende percettibile il fruscio liberato dallo sfregamento del dito sull’arcata- e lo fa ingorgare sulle pieghe di pelle all’angolo esterno dell’occhio. Poi il dito s’inarca sull’unghia sfiorando, per l’intera longitudine, il margine inferiore dell’occhio, premendo poi e ammassando la pelle contro il setto nasale. Sul crinale del naso, una piccola gibbosità -a cui le dita vogliono aderire attentamente- rallenta il tempo della perlustrazione. Con entrambe le mani, aperte, estendo nel senso, stringendo, i piani incavati delle guance. Risaliti gli zigomi pronunciati, dove si rompono le onde di pelle trascinate dalle mani, il tocco ombroso d’una ciocca di capelli illumina il limite morbido dato alla carne. Il denso biancore tattile della carne del viso si oscura nella vegetazione setosa della capigliatura ancora viva. E poi, con un movimento brusco, che stacca e ripiomba, commisurare la curvatura della fronte, indugiando sul rigonfiamento della labbra d’una piccola, fresca cicatrice. Non stare più sulla superficie. Inciderla, affondare le dita sul taglio. E, scendendo con un’improvvisa urgenza, sulla bocca, scostare un labbro dall’altro e infilare le dita sotto il palato.
Il movimento della mano, quando carica la pressione e deforma il lineamento -e trova spazio al suo calco sulla superficie modulabile, che trabocca dai suoi margini e pareggia il livello della foglia di carne che la riforma-, dispone sopra il volto ciò che non è più lo sguardo (una riserva di pensiero, un vuoto che ordina e accoglie la luce), bensì la sua assenza metonimica: la palpazione disguarda, all’occhio è crollata la luce. Nessuna simultaneità tra occhio e mano. Cambio de tercio. Un gesto che inizia grave, il cui peso tracima dalla sua stessa mole per la levigatezza della pagina di pelle, finisce a svirgolare, addolcito -a curvare, scarnificato di desiderio modellante, modulato, ubbidiendo alla traccia che si voleva cancellare, già cancellata-, la scrittura della sua violenza. Le dita pizzicano l’angolo interno dell’occhio sinistro di Senza Nome, il lembo di palpebra come unpetalo tra le unghie: torcendo lievemente all’insù la pelle, e scorrendo poi piano il pollice sul fiore delle ciglia, mentre la punta dell’indice dell’altra mano si bagna nel gelo del globo oculare nella fessura lasciata dalla palpebra sollevata. La mano porta in superficie, sulla sua variazione tattile e termica, la leggerezza graduabile che l’occhio situava nella profondità della prospettiva -misurata dall’anima, evocata dal nome. Non vi è forza preesistente da cui scaturisca la carezza, lo schiacciamento, l’ammassamento che la mano esegue e percepisce sul campo bianco, tattilmente bianco, del volto. Il vigore, la dolcezza del movimento nasce insieme all’intuito del luogo, alla rilevazione della carne.
Mi distendo nel letto, a fianco del corpo di Senza Nome, cercando con le labbra, al di sopra della pietra a goccia oblunga e della striscia odorosa del cuoio che lo cinge, il collo, la torre che la lingua segue nella linea inclinata impressa dal capo posato sulla guancia sinistra. Leccando fino alla gola, effettuo una piccola rotazione della mia testa, e finisco adagiandola sulla guancia destra, in posizione di sfioramento speculare del volto di Senza Nome. I capelli sanno d’erba secca, la carne ha stranamente il sapore del latte. La pellicina che si addensa sulla superficie del latte, penso a questo mentre torno a sfigurarle con la mano i tratti fermi e fragili del viso. E penso alla prima donna che ho avuto, a cui copersi con la mano il grazioso volto infantile perché non vedesse nel mio il piacere che mi dava. Le nostre teste sono gli apsidi dell’orbita di un astro oscuro quanto il silenzio, cieco quanto il tatto. La stella d’un volto macchina.
Questo fascismo del volto.
Dale limosna mujer. Dale limosna mujer. Que no hay en la vida nada. Que no hay en la vida nada. Como la pena de ser. Como la pena de ser. Ciego en Granada. Ciego en Granada.
Dagli la moneta falsa che conservi appositamente per lui. Il tintinnìo sul piatto. La trottola del tintinnìo che si spegne in volute rapide.
Cerco nell’armadietto le cose di Senza Nome. Qualche gonna o jeans, qualche maglietta. Indumenti intimi. Un tanga bianco con ricamate delle figure geometriche, dei pentagoni intersecati da triangoli e linee diagonali rosse. Una maglietta grigia con il disegno d’una mano rossa aperta. Una gonna lunga, nera, con stampate piccole sagome umane in bianco. In una scatola di metallo ci sono vari orecchini, tutti molto piccoli, con pietre nere, azzurre, rosse. Un quadernetto in carta riciclata, con brevi note scritte in una lingua a me incomprensibile. La grafia è sottile, minuscola. Le singole parole sono tracciate con un movimento continuo, non presentano nessun punto di frattura: e questo mi richiama specialmente l’attenzione quando, scorrendo le pagine rugose, incontro un appunto scritto di mio pugno e a fianco una chiosa? un commento? uno scritto insolitamente esteso di Senza Nome: la mia scrittura presenta parole spezzate da interstizi enormi, e a volte è difficile anche a me stesso capire che si tratta di un’unica parola. Nelle ultime pagine del quaderno trovo una foglia secca d’acacia. In un beauty case trovo una siringa nuova, avvolta nel cellophane. Una crema per la pelle, cosmetici. Due bastoncini di rossetto color viola. Svito il cappuccio del tubetto, mi segno le mani col viola. Voglio dipingere le labbra di Senza Nome. Porphyréou apó stómatos. In ginocchio sul letto, la mano sinistra sotto la nuca a sostenerle la testa, le sollevo le labbra col bastoncino del rossetto, cerco di coprirle accuratamente di viola. Le labbra che s’inarcano e ricadono inerti con la pressione delle mie dita. C’è una sbavatura di colore sull’angolo destro della bocca, tento di correggerla ma la peggioro. Uno sbuffo di sangue dipinto è esploso fuori le labbra. Il bastoncino del rossetto si rompe in due. Raccolgo i pezzi e comincio a spalmarne la crema sul volto bianco, direttamente con la punta delle dita. Una guancia, il naso, l’altra guancia. Le palpebre che affondano tenere contro i globi degli occhi, e la fronte sotto la frangia dei capelli neri, le conchiglie delle orecchie che spuntano dai capelli neri. Il volto è una macchia di sangue dipinto che emerge dal candore del sudario, il cui nodo, sopra i seni, compone una specie di cartiglio senza firma.
Via quei fiori dagli occhi. Non era questo il giorno delle rose.
Davanti alla grande finestra spalancata, l’aria é immobile e pulita, nera, i suoni della notte –la notte seguita con gli occhi deboli sulle sagome delle palme, sulla massa aperta dello spiazzo, sul gomito della curva d’asfalto oltre lo steccato, nel piccolo lago di luce artificiale- congiungono la distanza alla presenza, frammentata, sanguinante dai suoi bordi rotti, dei movimenti umani sul margine della città. I suoni della notte chiamano il nome dei movimenti umani poco prima d’ingoiarli (in rari casi poco prima di vomitarli). Il leggerissimo ronzío, forse solo immaginato, del traffico sulla circonvallazione (ma non è la pur estenuata visione delle luci bianche o rosse dei fanali che mi bisbiglia all’orecchio?), o le parcelle di conversazione di due uomini dietro una barriera a lato dello stradone di raccordo, fonemi che salgono come il fumo denso dalla torcia di segnalazione. Lo stridìo d’un’auto in frenata, lo scatto della portiera che si apre. Voce forte che chiede ai due uomini un’indicazione per un luogo, risa che s’incendiano un istante, poi svaniscono nel silenzio ancora battuto dal tonfo della portiera che si chiude e dai pneumatici che urlano nella ripartenza. Ma anche i rumori pigri, infinitamente ripetuti, che dal deserto inquadrano il muro del mio ascolto, come sguardi vocianti (eppure, ancora, in questa sinestesia, una sostituzione del senso, una prevaricazione di un senso sull’altro, molto più che una simultaneità di percezioni): i rumori presenti, i cani randagi, o di pastori beduini, che ululano alla loro specie o per aver fiutato una preda, o le voci taciute, sospese, dei grilli dalla macchia di verde a ovest della casa –mia madre diceva che la notte ruba gli occhi al giorno e i grilli gli rubano le orecchie-. Le brevi, rare, folate d’aria che ora fanno crepitare un vecchio giornale gettato nel cortile. Il paesaggio è fratturato in poche, risapute vibrazioni acustiche. Iterative, è vero, ma durano ogni volta così poco che nulla in esse posso afferrare, sono puri segni sul mio ascolto, e si ritracciano ogni volta su un udito dimenticante: che riconosce ma non ricorda del tutto. C’è un errore, un errare. Una divagazione dal senso, un allontanamento, quindi, dalla raccapricciante ostinazione a vivere di ciò che è morto. Qualcosa, qualcosa d’essenziale se ne scappa. E non c’è niente da prendere, di conseguenza nulla da lasciare. Ho sulla faccia tutta l’aridità della notte, un’aridità rinfrescata. Respiro col viso tutto il tempo della notte, tutto lo spazio del suo respiro. Il viso è il mestiere dell’uomo, e l’uomo lo fa con il culo. Il davanzale è coperto di polvere, vi passo la mano e la sollevo grigia come un uccello morto. La polvere si mette dappertutto, il deserto si è messo in tutte le stanze. L’unica soluzione che ho trovato, per una specie di comodità igienica, è di non farci caso. Insomma, qui, fermo (sì? un errore da fermo), con forza. Con abbandono e forza, non è contraddittorio. Sans autres renseignements.
(Beer Sheva, 1998)
MOLESKINE DELL’ERRORE, di Ianus Pravo
ERRANT EDITIONS 2012
Narrativa Contemporanea
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