Ira rosae

In attesa delle tue, ho succhiato le labbra del bicchiere. Ora succhierò le tue. Poi, per favore, apri il cassetto e prendi la pistola. Il caricatore è già inserito, togli la sicura, puntami alla tempia e sparami, guardandomi negli occhi. Non ho altro modo di denudarmi fino in fondo, non ho altro modo di farmi vedere mentre ti amo totalmente. Girami intorno, se vuoi accarezzami, accarezzami da morto, prendimi tutto ciò che non sono. Il sangue che si allarga sul pavimento sarà lo sperma di tutto il mio tempo eiaculato su di te. Mettimi una mano sul petto, ascolta il mio calore che svanisce rapido come il volo delle rondini dai nidi sotto il tetto al verde degli alberi nel cortile. Lasciami per sempre, prendi uno dei miei sigari, prendi una busta d’eroina, prendi la fiaschetta del whisky, prendi il mio ultimo moleskine, e la mia stilografica. Conserva la pistola. E nient’altro. Vai in cucina, sotto il lavello c’è una tanica di benzina. Portala qua, versamela addosso, dammi fuoco, e vattene. Vattene al pub, siediti al tavolo che dà sulla vetrata, beviti qualcosa, guarda la gente che sfila sulla strada. Osservane il flusso, e i gorghi, gli improvvisi ristagni, osserva i volti che si accendono e si spengono negli sguardi che ti rivolgono e che ti negano. Scolpisci nella tua memoria il volto di una ragazza che piange. C’è sempre una ragazza che piange, se vuoi vederla. Se ne sta in un angolo, rannicchiata in se stessa, dondola la testa, e stringe nella mano un foglio o una collana. È l’ultima mia immagine, è uno strato di fuliggine volato dal rogo del mio corpo. Premi una mano contro il vetro, osserva scomparire la sua impronta umida. Forse una donna ti sorriderà, e ti offrirà delle mele. Ti dirà che le pesano troppo nella borsa. Tu accettale, io mangiavo le mele con il pane, non avevo altro, a East London, quella volta che, come Cristo, aspettai per tre giorni, inutilmente, la morte. L’acido delle mele era piacevole, portato via dalla morbidezza del pane, come in un perdono tra oggetti nella mia bocca. Vattene a casa, getta nel primo contenitore la pistola, accenditi il sigaro, beviti un goccio dalla fiaschetta, poi getta tutto in un angolo. Conserva solo il moleskine e l’eroina, e la stilografica. Piano piano, sali le scale, piano, non prendere l’ascensore, sali piano le scale e pensa alla mia claustrofobia, alla mia necessità di spazio e d’aria, sali piano le scale, o se vuoi accelera tra il terzo e il quinto piano, rimani senza fiato, e ricordami quando arrivavo alla porta di casa tua senza più fiato, e senza fiato ti baciavo sulla porta d’ingresso. Una volta a casa, stenditi sul letto, e fammi un ultimo favore. Apri il mio moleskine, e leggi, nell’ultima pagina:
Dies Irae de dreit nien.
Dies Irae de dreit nien.
Il labbro della mano,
il leggio dell’unghia,
de dreit nien. Stabat mater
a offrir la mano
del nome
(la dimora del nome è una mano).
Dies Rosae de dreit nien.
Ira rosae, de dreit nien.
Con la stilografica cancella ognuna di queste parole. Poi getta dalla finestra il moleskine e la penna. Preparati con la carta stagnola la dose d’eroina da fumare. Accosta la fiamma dell’accendino alla carta stagnola, che il fuoco non ci arrivi troppo forte. Fuma, e dimenticami per sempre.
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