Approfondimenti
LA FECCIA DELLA NUDITÀ
Questa è la mia prefazione al libro “Il cervo applaudito”, di Leopoldo María Panero, di cui ho curato la traduzione. Il libro sarà in librería in marzo, per i tipi di EDB Edizioni.
Straziava il Tu torbidamente al termine della montagna
per il lago bianche donne venivano annunciate
la tempesta era ira
la sporca tempesta era ira inferma
l’aria inferma
l’insignificanza chiamata vita.
In my end is my beginning. Non ho mai ascoltato parole più spaventose. L’inizio è sempre vecchio, non è mai un impulso, è un’inerzia. L’inizio è sempre già iniziato. Il primo bacio ha la bava di un milione di milioni di baci morti. Il primo bicchiere ha la bava di un milione di milioni di gole che l’hanno già bevuto. L’inizio è una maschera, e la maschera dona eleganza agli zombies. L’inizio è una badilata di vecchiezza. Ma la vecchiezza è una Roma senza burle e senza ciance, che non prove esige dall’attore, ma una completa, autentica rovina: a dirlo è Pasternak, e Leopoldo María Panero lo mette in pratica. Noi, gli scrittori ultimi o postumi, non siamo altro che correttori di bozze. Cancellare, raschiare il palinsesto. Modificare il già scritto, il già pensato, disprezzando, per ingenua o ipocrita, ogni speranza in un atto originale. Essendo l’origine un atto ultimo. Leopoldo María Panero, sin dal suo iniziato inizio (anche Francis Bacon sosteneva che il pittore non deve riempire una superficie bianca, semmai dovrebbe svuotare, sgomberare, ripulire), è sempre stato in lotta con la memoria letteraria e filosofica dell’uomo, esponendo come feccia la propria nudità di ultimo poeta, esibendola come unicità seriale che nutre la figura del tremore. In questi ultimi anni, dopo che un pazzo, nel manicomio di Las Palmas, gli distrusse la macchina da scrivere, Panero solo detta i suoi testi ai suoi pochi amici, a me nel caso di questi venti testi, come successe già per Senz’arma che dia carne all’imperium (2011, Società Editrice Fiorentina), il dialogo impossibile scritto assieme a me. E la lotta con la memoria letteraria, le continue citazioni (spesso senza corsivo, non deviazioni ma linea portante del suo testo), di Eliot, di Pound, di Lacan, di Kierkegaard, di Lou Reed, di Gimferrer, di Carnero, di Virgilio o di Ovidio, sta diventando anche lotta con il ricordo di se stesso, le citazioni diventano autocitazioni, e le modifiche incidono sui suoi stessi antichi testi. Perché sono solo il ricordo di me stesso. Oppure, una voce sputa nel mio cervello / la parola ieri. Come Dino Campana nel manicomio di Castel Pulci, Panero, attraverso la dettatura dei suoi nuovi testi, sottopone la sua opera a una vibrazione, a un tremore: e con il riso bianco e muto che eiaculo / imito il pus / che urla dal ventre del cadavere. L’urlo, il gemito, il dolore. Gli ah, gli oh, che sempre più spesso scintillano nella sua più recente produzione poetica, sono parole che non rimandano ad alcuna significazione, sono significanti senza significato: non sono la rappresentazione del dolore, ma la sua presentazione diretta. Una lacrima che dice dove non si può più dire nulla, dice oh! ah!. Le estese, lussureggianti composizioni del primo Panero, si sono scheletrite in questi estremi testi della sua poesia ultima. Un pus, uno scarto, un escremento: nelle mie mani accolgo gli escrementi / formando con essi poemi. Mi detta le sue poesie mentre sediamo a un tavolo nella terrazza del Pub Mc Carthy, in Calle de Triana a Las Palmas. Il tavolo è presto occupato da bottiglie vuote di coca cola light, fazzolettini di carta, posaceneri ricolmi di sigarette a cui non ha dato più di tre o quattro tirate, e poi ha schiacciato con gusto di distruzione (le schiaccio come fossero bambini). Attorno a noi il vociare della gente, gli sguardi, tra l’insofferenza e lo schifo, dei camerieri e degli avventori. La spada sia il mio dente, e rida la gente, citando Góngora. Panero è un produttore d’immondizia, in stercore invenitur, dicevano gli alchimisti. È la nudità come feccia della svestizione. Cercando una rovina più compiuta della rovina. Una completa, autentica rovina.
L. M. Panero, fotografia di Michela Scalia
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