Recensioni
La sonata a Kreutzer. Tolstoj. 7 novembre 1910. Verso un’ignota destinazione (Rosa Riggio)
Lev Tolstoj “La sonata a Kreutzer”
7 novembre 1910, secondo calendario giuliano. Verso un’ignota destinazione
Perché dovrebbe continuare il genere umano? Perché vivere? Si chiede Pozdnyšev, il protagonista del breve romanzo di Tolstoj, “La sonata a Kreutzer”, quasi alla metà del suo racconto-confessione.
Il romanzo (1889) sottoposto a censura e poi uscito con l’autorizzazione dello zar Alessandro II, grazie all’intercessione della moglie di Tolstoj, Sòf’ja Andrèevna Bers (Sonja), nasce da una scommessa tra Tolstoj, il pittore Repin e l’attore Andreev Burlak, i quali, dopo aver ascoltato la sonata, avrebbero dovuto, ciascuno nelle forme della propria arte, creare un’opera. Solo Tolstoj lo farà.
Siamo su un treno, verso un’ignota destinazione. Pozdnyšev è un viaggiatore dagli occhi “straordinariamente scintillanti”, che si muove a scatti, secondo la descrizione del narratore, ossia il silenzioso personaggio che avrà la funzione di ascoltare “l’episodio critico” che lo stesso Pozdnyšev gli racconterà: l’uccisione della propria moglie.
In un delirio crescente, l’uomo ripercorre la propria giovinezza. Fino a trent’anni “M’insudiciavo nel marciume della depravazione e nello stesso tempo mi guardavo in giro per trovare delle ragazze che per la loro purezza fossero degne di me”.
La prima parte è una disperata invettiva contro il sesso e il matrimonio, contro la bellezza, che illude. Anche l’amore è un’illusione, frutto di inganni, di adescamenti più o meno consapevoli:
“si presuppone in teoria che l’amore sia qualcosa di ideale, di elevato, eppure in pratica l’amore è qualcosa di schifoso, di maialesco, che fa schifo e vergogna a parlarne e a ricordarlo.”
E il matrimonio? È un’istituzione ipocrita. Non c’è possibilità di una vera relazione uomo-donna.
“Tutto è avvenuto perché tra noi c’era quell’abisso tremendo […] quella tremenda tensione del reciproco odio dell’uno per l’altro”. Ed è in quell’abisso che ci trascina Tolstoj, nella ricerca della verità, alle origini dell’odio e della “cecità”. Dentro quel vagone si è chiusi come dentro la coscienza di Pozdnyšev, nei suoi autoinganni, nel non voler vedere (o poter vedere) la verità.
Nella seconda parte del racconto, dentro il climax che porterà al delitto, c’è il pezzo tremendo, La sonata a Kreutzer di Beethoven, ipnotizzante, “una cosa terribile”, come la coscienza che rivela sé stessa. La moglie di Pozdnyšev e il violinista Truchačevskij (forse il suo amante, o forse no, ma certo l’uomo che scatena la sua folle gelosia) suoneranno insieme la sonata e l’effetto sarà dirompente, di straniamento. Egli vede, per la prima volta. Vede la moglie com’è, come non l’ha mai vista, ma ciò non basta.
“Io vedevo tutto, ma non vi attribuivo nessun altro significato che questo: che lei aveva le mie stesse esperienze, che anche a lei come a me si scoprivano, ed era come se ritornassero alla memoria, nuovi sentimenti non mai provati”. Il legame tra la musica e il delitto resta misterioso, perturbante, come la moglie stessa, di cui non viene mai pronunciato il nome.
La sonata è un viaggio dentro il balenare della coscienza, che non impedisce il delitto. Tutto il monologo è un viaggio dentro la misoginia. Le donne sono nemiche ed estranee. La loro identità viene negata. Anche la figura femminile che interviene, all’inizio del racconto, nella conversazione sul matrimonio, viene zittita. Bastano poche parole perché anche un personaggio-comparsa riveli il giudizio su un mondo. La donna continua a parlare “secondo l’abitudine di molte signore di rispondere non alle parole del proprio interlocutore, ma alle parole che le pareva ch’egli avrebbe detto.”
E, tuttavia, la misoginia non è il tema del romanzo. Non è lì che la narrazione ci conduce (non solo). Pozdnyšev ha una strana teoria: l’umanità intera si estinguerà, non secondo una dottrina religiosa o scientifica, ma secondo la dottrina morale.
“Tra le passioni la più forte, cattiva ed ostinata è l’amore sessuale, carnale, e perciò se saranno distrutte le passioni, e anche l’ultima, la più forte di esse, l’amore carnale, la profezia si adempirà, gli uomini si uniranno insieme, lo scopo dell’umanità sarà raggiunto ed essa non avrà più ragione di vivere.” Perché vivere, dunque? Il sesso è l’ostacolo alla realizzazione della profezia. La tensione ascetica spinge verso l’annullamento. Nel progresso dell’umanità le donne sono nemiche del bene e della verità.
Alla fine, l’altra rivelazione. Pozdnyšev, dopo aver colpito la moglie, capisce di avere di fronte un essere umano.
“Per la prima volta vidi in lei un essere umano. E così insignificante mi apparve tutto ciò che mi offendeva, tutta la mia gelosia”. Siamo anche alla fine del viaggio in treno. L’oscuro personaggio che lo ha ascoltato è arrivato. Pozdnyšev resta sul treno e lo saluta dicendo: “perdonatemi”. Con questa parola prende congedo dalla vita. Non sappiamo nulla del suo destino, ma perdono è parola che si pronuncia in punto di morte.
“La sonata a Kreutzer” è un testo che va letto non solo nell’ottica di una morale ottocentesca, ma anche nel senso di un bisogno di spiegare a se stessi quali sono le ragioni della propria abiezione. C’è tutto, l’odio che resta dopo l’amore e la morte, l’omicidio. Il femminicidio, diremmo oggi. Il romanzo ci conduce nella feroce consapevolezza di una verità che non si può accettare, una verità che non libera, ma inchioda al proprio destino. Le ultime pagine, quelle che porteranno Pozdnyšev al delitto, sono potenti, assolute. È Tolstoj, insomma, e come tutti i grandi ci parla ancora, anche quando ci indigna e ci ripugna.
La notte del 27 ottobre del 1910, Tolstoj scappa di casa. Deve far perdere le proprie tracce, non vuole che la moglie lo raggiunga. È da lei che scappa. Il loro matrimonio era stato felice, ma anche pieno di crisi coniugali. Tutto si confonde, realtà e finzione celebrano il loro legame indissolubile. Nella stazione di Astapovo, pochi giorni dopo, il 7 novembre, Tolstoj muore. Dopo un viaggio in treno, in una stazione (come per Anna Karenina) si compirà il suo destino. Secondo Harold Bloom, egli trascorre gli ultimi giorni della sua vita recitando, suo malgrado (Tolstoj non amava Shakespeare) il ruolo di Re Lear, in una fuga che è “un salto disperato verso la libertà del reietto”.
Rosa Riggio
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