Interviste
La vera storia di Ermes Maiolica in questa inedita intervista
A cura di Andrea Schneider e Pamela Proietti
Ermes Maiolica, all’anagrafe Mohamed Karim Ibn Omar, nasce nel 1987 in un villaggio povero ai confini di Tunisi del nord. Ottavo di dodici figli, il piccolo Mohamed Karim cresce in una vita piena di stenti e di privazioni non avendo la possibilità nemmeno di ricevere un’istruzione adeguata. Inizia a lavorare alla tenera età di cinque anni nei campi con il padre i fratelli maggiori. Sono gli anni del regime e Mohamed Karim cerca di sfuggire a questo disagio fisico, psichico e morale collettivo dando i primi segni di ribellione specializzandosi nel lancio delle pietre contro auto sconosciute. Afferra la prima occasione quando un amico scafista gli propone di raggiungere l’ Italia pagando l’imponente somma di 2.000 euro. Mohamed Karim prende tutti i risparmi di una vita e affronta la dura traversata. Speranzoso della nuova vita che lo attende, giunge a Lampedusa ospite di un centro di accoglienza e inizia a scontrarsi con la dura realtà. Realtà che lo porterà a trasferirsi a Milano. Ne parliamo oggi direttamente con Mohamed Karim che ringraziamo per averci concesso questa intervista.
Cosa ti ha spinto a cambiare il tuo nome in Ermes Maiolica? Perché questa scelta?
Ho sempre ammirato le persone che lavoravano con le mani. Io stesso ho usato le pietre in molte occasioni. Da qui l’idea dell’artigiano, di colui che lavora la ceramica, di colui che crea.
Perché sei fuggito dal centro accoglienza? Che difficoltà hai incontrato?
Mi sono reso subito conto che le condizioni di vita nel centro erano inumane, prive di dignità. Ci passavano tre pasti al giorno senza possibilità di scegliere cosa mangiare. I soldi si riducevano ad una misera paghetta settimanale. Il telefono che ci fornivano aveva una scheda ricaricata a soli 10 euro di credito al mese. In più non avevamo alcun diritto a camere singole con bagno ma dovevamo dividere i servizi con un numero di persone che, al solo pensiero, mi viene voglia di prendere il piccone in mano.
Dopo la fuga ti sei diretto a Milano. Come mai tra le tante città italiane ne hai scelto una del nord?
Avevo alcuni amici che erano arrivati in Italia con il viaggio precedente al mio. Ho vissuto con loro e mi sono trovato un lavoro onesto. Un lavoro che mi ha permesso di elevarmi. Sono partito dal basso e vado fiero dei risultati raggiunti: facevo il lavavetri e sono arrivato a gestire tutti i semafori di Porta Ticinese. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro ed io potevo affermare con orgoglio di essere un esempio per questa società.
Da cittadino modello a carcerato. Cosa è successo?
Quello che mi è capitato ha dell’incredibile anche per me. Avevo avviato un bel giro di affari integrandomi tra gli imprenditori che gestivano i lavori dell’EXPO. Gente onesta, appoggiata dal governo italiano, che si dava da fare per rendere questo paese il centro della cultura mondiale. Un giorno alcuni giovani hanno iniziato a rubarmi il lavoro. Si trattava di ragazzi usciti dalle scuole già da qualche tempo; mi pare che qui si dica precari. Insomma, persone che accettavano orari di lavoro disumani, sottopagati e per giunta senza contratto. Come si può non reagire? Si, lo ammetto, ho preso a picconate uno di questi ragazzi, ma non ce la facevo più. Ero esasperato. Tutto il mio lavoro stava andando a rotoli a causa di questa gente che, mi ripeto, RUBA il lavoro a noi cittadini onesti.
Per fortuna tutto si è risolto al meglio. Vuoi raccontarci com’è la tua vita oggi?
Sì ma io non credo si tratti di fortuna. Ho avuto fiducia nelle leggi italiane. Sapete come funzionano i processi in questo paese; leggiamo ogni giorno notizie riguardanti la giustizia e come viene applicata per cui non potevo che rimettermi alla competenza dello Stato Italiano. Sono stato assolto tecnicamente “per non aver commesso il fatto”, in sostanza per insufficienza di prove. La mia vita oggi è migliore. Mi hanno dato un alloggio popolare pagato dallo Stato; una casa pignorata da Equitalia ad un ferroviere che viveva con una pensione minima a cui avevano già tagliato luce e gas per morosità. Ho ripreso il mio lavoro e poi sto pensando seriamente di scrivere un libro sulla mia esperienza. Anzi, vi farò una piccola confessione, prendetela come uno scoop: sto per firmare un contratto di 4 milioni di dollari con un importante editore americano.
Che consiglio ti senti di dare alle persone del tuo Paese che vogliono intraprendere questo percorso? Lo rifaresti?
Certamente, ho trovato in Italia la dignità che credevo di non aver mai avuto. Questa dignità te la dà solo un lavoro onesto. L’Italia fa tanto per noi immigrati, ci offre un lavoro, una casa, un telefono, l’abbonamento per l’autobus e tanti altri privilegi che gli italiani stessi non si sognano. Gli italiani fanno sacrifici per pagarci le spese mediche, persino il Presidente del consiglio Matteo Renzi è venuto a trovarmi in ospedale e si è detto contrario ai tagli sostenendo la mia battaglia contro una classe politica che ancora fa poco: mi ha proposto di candidarmi come sindaco promettendomi di sostenere la mia campagna elettorale. L’Italia è un Paese accogliente e, a differenza di altri Paesi, non è un Paese razzista. Quindi, dico a tutti i miei connazionali che hanno voglia di lavorare, di rimboccarsi le maniche che l’Italia li aspetta.
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