La vocazione all’amore infelice (Marina Cvetaeva)

a cura di Lisa Orlando

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A soli sei anni, Marina Cvetaeva , vide la scena d’amore che, in assoluto, nella più pura passione o nel più puro sentimento di esclamazione di essa, marchiò l‘intera sua esistenza: Tat’jana e Onegin. Ne “L’armadio segreto”, lasciando filtrare la scena, così la descrisse : “ Sulla panchina — Tat’jana. Poi arriva Onegin, ma non si siede, mentre lei si alza. Entrambi sono in piedi. E parla soltanto lui, per tutto il tempo, a lungo, mentre lei non dice una parola. E qui io capisco che […] questo — è l’amore.

In seguito la mamma di Cvetaeva le chiese che cosa le fosse piaciuto più d’ogni altra cosa; lei rispose: Tat’jana e Onegin. Non comprendendo l’ambiguità della riduzione, la mamma le riformulò la domanda, e lei, ancora: Tat’jana e Onegin. Indubitabilmente, a soli sei anni, quello che Cvetaeva comprese – quasi come un lampo d’illuminazione – f u che lei non si era innamorata né di Tat’jana tantomeno di Onegin, ma del loro amore; ancor meglio: dell’a m o r e!

“La panchina, su cui loro non erano seduti, ha segnato il mio destino”, scrisse, “Io né allora, né dopo, mai amai, quando si baciavano, sempre — quando si separavano. Mai — quando si sedevano, sempre — quando se ne andavano ciascuno per suo conto. La mia prima scena di amore fu di non amore: lui non amava (questo l’avevo capito), per questo non si era seduto, lei amava, per questo si era alzata, neanche per un minuto loro erano stati insieme. […] Questa prima mia scena d’amore ha segnato tutte le mie successive, tutta la passione in me dell’amore infelice, non corrisposto, impossibile. Da quel preciso momento io non volli essere felice e con ciò mi votai — al non amore.”

Quasi come fosse un elemento originariamente naturale in lei, la vocazione all’amore infelice condusse Marina a scegliere sempre coloro che (segretamente) sapeva che non l’avrebbero corrisposta, perché – mai! – potesse essere intaccata la struttura eroica e assolutamente pura del suo atto d’amore. Tra l’altro, nei suoi precipitosi scalpitii passionali, a Marina poco interessa la vera identità dell’altro; dal vetro regale dei suoi occhi, quasi consapevolmente la offuscava di crespo nero perché potesse creare il suo capolavoro: il volto ideale dell’amato; un’immagine (o la zona?) del cielo solitaria e immortale. Per questo tutti i suoi amori ebbero infelici epiloghi.

Tuttavia, per quanto immersa in un universo di amore ideale, inventando giochi di vertiginosa delizia, Marina restò sempre consapevole di cosa fosse l’altro: “Tu, cioè io + la possibilità di amarmi da me. Tu, la sola possibilità di amarmi da me. L’esteriorizzazione della mia anima”. L’altro è, dunque, solo un mediatore tra sé e sé, uno strumento dell’amore di sé. “Ho bisogno della mia anima a partire dal respiro dell’altro, bermi”. In fondo non cercava neppure d’esser amata, quanto di individuare – incalzata da una esigente obbedienza – qualcuno da desiderare, affinché si attivasse il processo di creazione; una galassia di miracolose parole. Tutto le era indifferente: un uomo, una donna, un bambino, un vecchio – purché lei amasse! Che fosse lei ad amare. Amare, per Cvetaeva, non era il gesto conclusivo, ma il modo diretto per accedere a una sintassi quale urlo di assoluto. L’amato doveva essere il testimone della speciale drammaticità della sua esistenza. Cvetaeva scelse la massima vibrazione del desiderio depotenziando la sua soddisfazione; la verità della sofferenza piuttosto che l’artificiosa felicità terrena. I luoghi dell’afflizione (gli amori infelici) furono pertanto funzionali al rinvigorimento della propria forza poetica. “In amore ho saputo solo una cosa: soffrire come una bestia – e cantare», Ma il suo canto d’amore fu capace di spostare l’intero universo. A Rilke scrisse: «Chi potrebbe parlare delle proprie sofferenze senza esserne entusiasmato, cioè felice?» . Si potrebbe aggiungere che, alterando la proporzione dei propri soddisfacimenti, si creava (in lei) quella sofferenza quale vuoto, bruciante, essenziale per la c r e a z i o n e.

Ogni evento della storia di Cvetaeva ha avuto una qualità fatale e tragica (fino al suo estremo gesto; tutto in lei pareva essere stato come una lunga preparazione alla morte, meglio: al raggiungimento dell’infinito – a un Cielo di assoluta felicità. Ci sono esseri che, per una più smaniosa propensione all’assoluto, vivono con più straziante intensità il conflitto tra la zona angusta delle esperienze vissute (permeate di inesorabile finitudine) e l’ampio spazio di felicità presagite. Cvetaeva mal tenne a bada le aggressioni della realtà e le tentazioni del delirio da esse scaturite. Così furono tutti i suoi amori – compreso quello per suo marito Sergej – sempre vissuti nel tentativo disperato di affrancarsi dalle radici grovigliose della terra. E’ vero che, agli occhi di Cvetaeva, Sergej occupò un posto privilegiato a cui nessun altro uomo poté mai aspirare (poiché in quel posto s’erano depositati il miracolo e il sacro), tuttavia nel corso degli anni, le sopraggiunse, inequivocabile, la consapevolezza di quanto fosse grande l’incompatibilità (metafisica) che li divideva; “Lui non può vivere senza giornali e io non posso vivere in una casa e in un mondo in cui l’attore principale è il giornale. Sono totalmente al di fuori degli avvenimenti, lui vi è profondamente immerso”; pertanto, pur in questa formulazione di amore eterno, i due mondi (reale e ideale) non si giustapposero, piuttosto si sovrapposero, inconciliabili.

Marina! – nel tuo nome, ora, riduco la distanza tra me e te. In verità io so (lo so!) che tu fosti nube. Che eri grigia e soffice, che in certo qual modo non sei neppure esistita (nella materia), che non ti si è potuta toccare, che non ti si è potuta abbracciare, che attraverso di te, con te, in te — si poteva soltanto volare! Ché tu eri – a r i a!. Eppure ossessivamente mi chiedo, saresti stata nube, sempre, aria cielo, se tutto, intorno a te, fosse stato non così desolato, non così tragicamente rovinoso?

Fuori di te: la rivoluzione bolscevica che fu deflagrazione di miseria; per te; per tutti; l’impubblicazione dei tuoi scritti (per il loro pericoloso contenuto politico): ulteriore aggravamento di miseria; e poi, in una concatenazione ineluttabile, le tragedie: la carcerazione di Sergej e di Alia; l’invasione tedesca in Russia, l’inevitabile tuo rifugio in un villaggio tartaro – dove non si poteva che morire. Il 31 agosto del 1941 prendesti una corda e ti lasciasti cadere giù, nel grembo della morte, soffocando la tua vita. Tuttavia, la miseria umana uccise il tuo corpo, nell’atroci sofferenze che ti inflisse, ma la tua anima restò salva; in te, lo spirito ebbe vittoria sulla materia!

C’era una irruzione di te(!) di te – Marina! – in ogni tuo sguardo, in ogni tuo spostamento di attenzione; sempre tu: in ogni soffio, suono, eco, parola, trasalimento fonetico; ogni tuo gesto aveva la qualità luminosa d’un tracciato nel cielo; eri solenne, troppo, per una dimensione di vita quotidiana; non avresti che potuto vivere in una sede intemporale. Le tue passioni, dunque, specificarono il tuo destino. La passione dell’assoluto. La passione dell’amore. La passione della verità. La passione della fedeltà a te stessa. La passione del sacrificio del sé. La com-passione, che ti fece sempre preferire gli esseri umani alle opere d’arte.

La tua poesia fu capolavoro, senz’alcun dubbio possedeva il suo costruttivo intreccio; eppure più di essa ti cinge e ti illumina l’aureola di una qualità morale che ti lascia entrare nell’empireo quale creatura imperitura. Nonostante il tuo amore per Pasternak, la tua rottura con lui fu definitiva quando venisti a conoscenza che andò a Parigi, attraversando la Germania, senza avvertire la necessità di abbracciare i propri genitori che vivevano a Monaco, ben sapendo che non li avrebbe mai più rivisti. In tale inclemente mancanza intravedesti l’impronta di una scelta affatto nobilitante che allontanava Pasternak, insieme ad altri eccelsi creatori, dagli esseri umani, per una accanita, servile devozione verso le opere d’arte. «Dimmi quello che vuoi, ma non capirò mai come si possa passare in treno vicino alla propria madre senza andare a trovarla, passare vicino a dodici anni di attesa. […] Dopo ciò che hai fatto di tuo padre e di tua madre, non puoi più farmi nulla. È l’ultimo colpo devastante, subito da te».
(NO! Non può non lasciare una traccia esigua una creatura che ha vissuto così, con una tensione energetica verso l’essere umano e la giustizia verso esso.]