Las Palmas, 24-9-2012

Questo è il racconto dell’incontro avuto da Michela Scalia, insieme a me, con Leopoldo María Panero nel settembre del 2012. Da quell’incontro è sorto il libro “Il cervo applaudito”, edito da EDB e tradotto da me. Da quell’incontro Michela Scalia ha tratto elementi per elaborare la tesi con cui si è laureata, in Lingue e Culture Moderne, all’Università di Palermo: “La Divina Follia. L’esperienza straniante del manicomio nella poesia di Alda Merini e Leopoldo María Panero”.   

 
Hai lasciato traccia nella mia carne
e memoria nella pelle […]
Panero L. M., Poemas del manicomio de Mondragón

LAS PALMAS DE GRAN CANARIA – 24.09.2012

Le quattro e un quarto del pomeriggio, Ianus ha preso
appuntamento con Leopoldo María Panero che ci aspetta in un bar
del centro. È il mio primo giorno a Las Palmas. Sono intimorita.
Sono estasiata. Ci incontriamo a Plaza Santa Catalina e Ianus mi
porta in regalo un po’ di libri, un tesoro che non riesco a smettere
di guardare e da cui non voglio separarmi. È ora di andare. Saliamo
sul primo autobus che porta in centro e il mio sguardo si sposta
incostante sulla gente, sulla strada, incrocia i palazzi che sfrecciano
veloci, ho mal di mare e guardo Ianus, se sono qui è grazie a lui. I
giorni precedenti alla partenza sono stati una cacofonia di parole
indagate. Una ricerca febbricitante del senso di questa o quella
poesia, di una parola, un verso, un gesto. Ritorno al presente, poso
nuovamente il mio sguardo su Ianus, «dobbiamo far presto» mi
dice, «Leopoldo non tollera ritardi e potrebbe andarsene.»
Comincia a piovere ma è normale a Las Palmas, l’umido si attacca
al mio corpo sudato per la fretta di non arrivare in tempo, non ho
modo di pensare all’immediato futuro, lui è già lì, seduto al tavolo
di un pub in Calle de Triana. Sta bevendo una Coca Cola. Alza lo
sguardo e si illumina, spinge la sedia indietro corre ad abbracciare
Ianus, il suo traduttore all’italiano, il suo amico. Si gira, mi nota,
dice: «È tua moglie?»
Siamo seduti allo stesso tavolo dove, pochi minuti prima del nostro
incontro, sorseggiava la Coca Cola, mi offre una sigaretta, l’accetto
volentieri, l’accendo e mi fermo a guardare mentre Ianus gli chiede
della sua vita, delle novità. Ad un tratto si ferma, ci guarda e dice:
«La follia non esiste. È qualcosa che si risolve parlando.»
I miei giorni con Leopoldo María Panero e Ianus Pravo sono stati
un miscuglio di suoni, odori, un vociare caloroso di gente, poesie,
sigarette, caffè lunghi e incanto.
Ho incontrato il poeta spagnolo un pomeriggio afoso di Settembre,
in un locale del centro, mi sono seduta al suo tavolo e pian piano,
in punta di piedi sono entrata nella sua vita.
Ci incontravamo sempre di pomeriggio, sempre in un locale
diverso, circondati dal ribrezzo degli avventori dei bar, o dalla
diffidenza dei camerieri. («Questo è un paese dove si può
assassinare, mentire, rubare in nome di Dio, ma guai a chi piscia
per la strada»).
Ho ascoltato molto durante quei pomeriggi, e ho fotografato il
poeta che solo fino a pochi giorni prima, dallo schermo del mio
portatile, sorrideva alla macchina da presa nel documentario El
desencanto.
Leopoldo fumava decine di sigarette e recitava i versi di
innumerevoli poesie, alcune sue, altre provenienti dall’immenso
bacino culturale che lo contraddistingue. Uno di quei pomeriggi si
voltò e mi disse in italiano: «Non sapevo che bisognava credere in
Dio per vivere in manicomio.»
Mi parlò di Michi, il fratello minore morto qualche anno fa,
stroncato da una malattia, «lo hanno avvelenato» mi disse, e nei
suoi occhi il dolore riprese il sopravvento. Spesso il suo sguardo
vagava tra le strade, tra la gente che incrociava il suo sguardo
inconsapevole dello spirito che si cela dietro a quell’uomo curvo,
schietto, reietto. «Hombre normal», pensavo, ti è celato il segreto
della grandezza che sta dietro a questi occhi umidi di fumo.
Mi parlò di Beatrice, il suo primo amore, del sanatorio, dell’odio
verso las Teresitas, le infermiere, della sofferenza nel manicomio,
della solitudine, del Dolore.
Mi guardò e mi disse, citando Pavese: «Verrà la morte, e avrà i tuoi
occhi.» Mi prese la mano un giorno, senza parlare, mi condusse in
una delle librerie del centro, cercavamo qualcosa di suo per me, e
comprammo invece una sua raccolta, che lui non possedeva più.
Ascoltai i versi che dettava a Ianus, i versi della raccolta Il cervo
applaudito, presentata in Italia lo scorso 20 Marzo. Lo osservavo
riflettere, sciorinare i versi tra la cenere di una sigaretta e un sorso
alla sua Coca Cola, lo osservavo indagare all’interno della sua
mente e trasformare il suo scrutare in parola poetica.
Lo ascoltai comporre:
Cuando el silencio se pierda
quedará solo el grito
el grito de la locura
que no conoce semejante
que está solo en la orilla
jugando al bacará de la noche
lo dije en otra ocasión
Cuando cese el silencio
mi frente boquearà
en la playa
perseguida por el insecto de la nada
ah los peces shakespearianos que aullan en mi conciencia
(cito a un poema de Yeats)
y mi frente que cae al suelo
una vez más
perseguida por el insecto de la vida
por la vida que no es mía
y que cae una vez más al suelo
haciendo llorar al insecto
y haciendo gemir a las voces
que miseras las voces, Carnero dijo,
llaman imploran gimen
se desatan en llantos
en la liviana espesura surge pronto un óboe
o un chelo
y una vez más será la ruina en mi concento
estantigua de fuego en donde danza el sueño.
Lo accompagnavamo al sanatorio ogni sera alle sette. Dopo una
corsa in taxi, mentre il sole scompariva dietro alle coloratissime
case di Las Palmas, ci fermavamo sulle panchine insieme agli altri
degenti. Ci davano il benvenuto e mi chiamavano niña, Leopoldo
insisteva per presentarmi e diceva a tutti, fiero, che io avrei scritto
una tesi su di lui.
C’era un piccolo spazio ricoperto da macchie indistinte di verde,
una donna un giorno si distese, sembrava una bambina, osservava i
fili d’erba sparuti sul terreno e ne decantava la bellezza, fumava
una sigaretta dopo l’altra e il suo sorriso infondeva un calore
rassicurante e inumidiva i miei occhi. L’ultimo giorno un ragazzo
ci disse che io e Ianus eravamo la cosa più bella che fosse capitata
lì da molti anni, salì nella sua camera e mi portò un quaderno
sdrucito su cui c’era la sua opera, testi in prosa e in poesia, mi
chiese di leggerlo, di leggerlo ad alta voce, voleva sentire le sue
parole attraverso la mia voce. Lo feci e non potei continuare a
lungo, la mia voce era rotta dall’emozione e la sua calligrafia
difficile da decifrare, mi diede allora una sigaretta, un bene molto
prezioso e molto ambìto dentro a quelle mura.
I loro volti sono marchiati nella mia memoria, i loro sguardi si
sovrappongono, ognuno con la sua storia di dolore, ognuno col suo
fardello, ognuno con un sorriso autentico, puro.
Il nostro saluto fu frettoloso, una pacca sulla spalla, un ultimo
sguardo, un sorriso. Leopoldo non ama gli addii. Lo vidi stagliarsi
sulla porta del sanatorio, unico rettangolo di luce in un immenso
buio, non si girò, varcò la porta e col suo passo strascicato si
allontanò, solo, insieme al sacchetto con dentro i libri e i numerosi
pacchetti di sigarette.
Le rughe sul volto di Leopoldo Marìa Panero raccontano delle storie, le dita macchiate dal tabacco, la sigaretta umida tra le labbra,
i bicchieri mezzi pieni di Coca Cola lasciati sui tavoli dei bar, le
camicie a righe, il suo sguardo genuino non sono che piccoli
frammenti di lui. Ho cercato di imprimere con la luce, nelle mie fotografie, ogni dettaglio, ogni solco.
Panero è multiforme creazione, Panero è ludibrio. Panero è un
lamed wufnik lacerato. Panero è un grido nel silenzio, una ferita
non rimarginata, Panero è un «cervo applaudito solo dalla pagina»,
ed è profeta assuefatto da questa traslucida, divina follia.

                                                                                      MICHELA SCALIA

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