Approfondimenti
LE MOSCHE
Da qualche tempo vedo spesso per strada gente che piange. Stamattina al Bar Schilling, in Carrer Ferran, una ragazza a un tavolo piangeva, e poi è crollata a terra.
Ora, nella terrazza di casa mia, seduto sul pavimento, osservo due mosche minuscole, di appena qualche millimetro, posate sulla vetrata. Osservo come queste mosche si accoppiano. Lascio che lo facciano, non le interrompo, rimango a guardare la loro copula meccanica: fanno un piccolo salto, rimangono sospese nell’aria muovendo le ali e in un attimo tornano a posarsi sul vetro. Guardo senza perdermi un solo movimento dei loro corpi che immagino (l’immaginazione è lo strumento del mio pianto) estasiati di piacere: anche se sembrano non sentire nulla, io sono convinto che non è così.
Fanno altri piccoli salti e tornano a posarsi sul vetro, e sul vetro girano su se stesse. Poi, all’improvviso, si lanciano unite in volo senza abbandonare la postura del piacere, percorrendo una parte della vetrata. Continueranno, le due mosche, nella congiunzione carnale per l’eternità? (L’eternità non ha a che fare col tempo. E con le mosche?). Non so quanto tempo vive una mosca, non molto credo, un mese o due al massimo. Penso che in questo istante sono eterne.
Un istante ancora, e non lo sono più. All’improvviso si separano, se ne vanno in direzioni opposte. Per un momento seguo i due punti neri aprire lo spazio tra di essi. C’è da piangere a piangere il richiamo della specie.
Mi preparo la carta stagnola. È un atto religioso, da re-ligere, fare attenzione, aver cura. Con le forbici la taglio dal rotolo, una striscia abbastanza lunga e non troppo larga. La piego ai bordi, graffiandola con le unghie dei pollici, formando il letto su cui scorra l’eroina riscaldata. Vi verso, da una busta di plastica, la polvere bruna, l’ammonticchio su un lato del piccolo sentiero argentato che ho costruito. Sto già tenendo tra le labbra il tubicino, di vetro, con cui aspirerò il fumo dell’eroina bruciata. Faccio scattare la fiamma dell’accendino, stringo la stagnola tra l’indice e il pollice della mano sinistra, sto attento che il fuoco non arrivi troppo forte all’eroina, che la punta della fiamma soltanto lambisca il suo letto: la polvere va sciogliendosi in un olio che si oscura e striscia sul supporto in un piccolo e breve corso fangoso. Devo far sì che il fumo si liberi poco a poco, in un filo, e io abbia il tempo di aspirarlo e tenerlo a sufficienza nei polmoni.
Quando tutta l’eroina nella stagnola è bruciata, mi accorgo che mi resta ancora qualcosa nel tubicino: strisciandolo sopra il fumo, ho raccolto pezzetti di pasta marrone sul vetro. Gli passo la fiamma, e apro la bocca per catturare il fumo, apro la bocca come alla bocca di un’amante.
Nella stagnola la pasta dell’eroina s’è fatta nera, e nel suo flusso verso il fondo del canaletto ha lasciato una sequenza di punti fangosi. La gola mi brucia e tossisco. Ho qualche minuto per pensare, e penso alla ragazza di stamattina, crollata a terra piangendo, nel bar. La perdita della posizione eretta è commovente. Ogni volta che la perdo, non posso fare a meno di piangere. Per essere riuscito a perderla. Anche l’amore lo faccio piangendo. Le lacrime sono mosche che copulano sulla mia faccia.
Nonostante che tutto il fumo sia volato via, ho la sensazione che l’asprezza del suo odore mi ritorni di colpo in faccia. Mi sento la faccia perlustrata dall’odore del fumo come da una mano lenta e leggera. La tosse si intensifica. Un’ondata di calore mi scende dalla faccia al petto, sembra trascinarmi la colonna vertebrale su e giù per il ventre, sento la testa separata dal corpo, la testa e il petto sono due centri distinti per le fiammate che mi crescono come orgasmi lenti e prolungati. Mi sembra di volare oltre l’inferriata della terrazza. Ma sento il vetro a cui appoggio la schiena trasformato in aria respirata dal mio piacere.
Non so quanto tempo sia passato. Mi sembra di avere la pelle sollevata dalla carne, cenere tiepida che si disperde nell’aria ma si riforma subito cenere, la carne e il sangue sono freschi. La tosse mi pulsa liquida in bocca come un fiotto di sangue disceso dalle tempie. Mi tremano gli arti, una mano batte contro una specie d’acqua dura come un muro. Non m’importa nulla. Solo osservo il mio riposo frenetizzato su se stesso. Un riposo che riposa il riposo.
Ore dopo, ogni mio sguardo è sporcato da punti neri in congiunzione, che pulsano e si separano, e tornano ad unirsi come mosche che copulano. Ogni punto nero è un peso che ho trascinato coi miei occhi e che me li ha sfiniti. Le mosche si accoppiano negli occhi come le lacrime copulano sulla mia faccia. Le lacrime sono pesi a sfinirmi la faccia di mosche.
I miei occhi hanno le mosche per padrone. Ogni sguardo, ogni scrittura, e il suicidio, sono atti di sottomissione. Ogni atto è una sottomissione. Si tratta di cercare il padrone più atroce, non il più benevolo. La libertà è cercarmi il padrone più atroce, non il più benevolo. Mi tremano le braccia, e una ragazza piangente le calma, una ragazza piangente sollevata dalle mie braccia che tremano e che il peso di lei, aspro di fumo, acquieta, con lacrime dure come un muro.
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