Approfondimenti
L’istante in cui uno scrittore (un uomo?) cadrà o si compirà. (Lisa Orlando)
[Colloquiando con Cristina Campo e Alain]
La giustizia perfetta, in letteratura, si ha quando l’autore non trama alcun artificio dietro le quinte del male. Colui che scrisse l’Iliade, ad esempio, fu giusto, poiché oltre a raffigurare le due parti (in conflitto) in modo neutrale, seppe ben rivolgere lo sguardo alla sorte avversa di tutti, raccontandola cioè senza contraffazione, senza schermare la fredda brutalità dei fatti di guerra.
Chi ebbe l’ardimento d’indugiare sulla putrescenza d’una carogna? Baudelaire: “Le mosche ronzavano sul ventre putrido donde uscivano neri battaglioni di larve colanti come un liquame denso lungo gli stracci della carne”. Tuttavia, molto rara è una giusta riproduzione del male, poiché obbliga l’autore a patire sulla sua carne tutto quel serbatoio d’orrore di cui egli parla – il che può avvenire solo a una precisa condizione, ovvero: se il male è prima accettato quale elemento naturale e irriducibile dell’ordine del mondo.
Lo scrittore che ha vocazione al vero accetta innanzitutto che il bene e il male siano allo stesso titolo (Keats riuscì in questo, e magistralmente nella lirica “Ode a un usignolo”; e Goethe, Holderlin, Novalis, Rilke, tanto per citare alcuni grandi maestri), rifiutando, nei confronti del male – della necessità meccanica che lo produce – sia la sommossa che i falsi supplementi di conforto.
Questo consenso alla necessità, meglio: all’accettazione delle spietate leggi che presiedono il mondo è, secondo Cristina Campo, l’elemento di discrimine che disgiunge la vera letteratura (pulsante il controcuore della notte) purtroppo ridotta e marginale, da quella ch’è la falsa (?) letteratura, chiusa nel perimetro della fortezza diurna, molto più omaggiata, ma assolutamente di minor valore.
Accettare la notte oscura, accettare tutto ciò che è inconsolabile. “Qui, dove il tremito scuote gli ultimi, scarsi capelli grigi, / Dove la gioventù impallidisce, si consuma e simile a un fantasma muore,/ Dove il pensare stesso è riempirsi di dolore”; qui dove “La solitudine scorre come i fiumi”; e “L’acqua via per le grondaie che passa in rassegna uno sfilar di morte aride foglie”.
Dire, ad esempio, come Ivan Karamazov: niente può supplire pur una sola lacrima di un solo bambino. E tuttavia accettare tutte le lacrime, e gli infiniti orrori che sono al di là delle lacrime. Accettare queste cose non presupponendo che esse comportino compensazioni, ma in se stesse. Accettare che esse siano, semplicemente perché sono.
I grandi scrittori notturni ebbero l’eroica capacità di accogliere il travaglio dell’occhio, gli aculei delle api regine; immobili, contemplarono la notte fino in fondo, senza uno straccio di cielo chiaro.
Perché accettare il male significa acconsentire all’onnipotenza del visibile (alle segreti leggi di necessità di cui nessuno mai saprà l’origine), e dunque com[prendere], innanzitutto, il mistero e, al suo cospetto, la bellezza senza gloria d’ogni umana fragilità, d‘ogni umana sottomissione, il mondo tutto, pur fiaccato, pur insanguinato dalle torture, e dai patiboli della morte.
Pertanto, il rapporto con la legge di necessità sarà elemento determinante della sorte di uno scrittore (di un uomo, aggiungerei), l’istante in cui egli cadrà o si compirà.
Cadrà, se incapace di sopportare l’orrore (e non solo per debolezza d’occhi) chinerà il capo e cesserà di amare; ma si compirà se, nonostante tutta l’esperienza del male commesso, sofferto e osservato, seguiterà a non mancare l’atto d’amore: allora il soffocato barlume della luna, scostando una nuvola, si accenderà.
Giobbe: il grido inconsolabile; Munch: il grido di profondissima angoscia; Edoardo II (Marlowe): il grido di agghiacciante disperazione. Cosa rende belli (in arte) queste grida di terribilità, d’immensa miseria umana se non l’amore a oltranza dell’artista che, pur dinanzi l’orrore, non smette di amare mai, meglio: non smette di sottomettersi. Mai a ciò che esiste, mai a Dio ch’è (pur) la Necessità. Nonostante il carattere assolutamente tragico e non-umano di tale sottomissione.
Émile-Auguste Chartier (più conosciuto con il suo nom de plume, Alain) scrisse: “L’universo è un fatto, bisogna che la ragione si inclini a questo, bisogna rassegnarsi a dormire prima di aver contato le stelle. […]
Chi ha compreso la Necessità non chiede spiegazioni sull’Universo. Non chiede il perché di questa pioggia, di questa peste, di questa morte. Poiché sa che non c’è risposta a queste risposte.”
[“Ciò che esiste merita di essere amato? Assolutamente no!” – risponde Alain. Nondimeno, continuare ad amare ciò che esiste – prosegue Cristina Campo; o io?]
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