“L’unica certezza … amore che moltiplica e non divide”: “Prossimo e remoto” di Eleonora Rimolo (peQuod, 2022, postfazione di Milo De Angelis)

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“Prossimo e remoto”, il nuovo lavoro di Eleonora Rimolo (peQuod, 2022, collana Quai de Boompjes, a cura di Valentino Ronchi, postfazione di Milo De Angelis), racchiude già nella scelta del titolo molte delle sue istanze e larga parte del panorama che intende abbracciare, esattamente come l’autrice ci ha abituato sin dalle precedenti raccolte.

Se in “Temeraria gioia” (Ladolfi, 2017) la necessità di osare il gesto e l’entusiasmo vitale nella febbre dell’attimo è il faticoso traguardo raggiunto attraverso una lucida presa di coscienza di una realtà contraddittoria e dolorosa, avvinta da una nostalgica saudade e dalla perturbante malinconia di ciò che non è mai potuto essere e di ciò che è ormai perduto, nel successivo “La terra originale” (Lietocolle – pordenonelegge, 2018) queste tematiche vengono elaborate verso la ricerca di un luogo dello spirito originario, non solo geografico ma degli affetti, delle idee, dei valori, carico di significatività e potenzialmente in grado di reggere un senso di prospettiva, di direzione e di significato, nell’orizzonte in cui naufragano desiderio e volontà degli uomini, insieme ad ogni altra cosa.

Dopo quattro anni la Rimolo ci propone dunque “Prossimo e remoto”, opera stilisticamente più matura, caratterizzata da un versificare denso e dal respiro ampio e allo stesso tempo ricco di dinamicità drammatica, e umanissima; il titolo sembra volersi riferire al ruolo centrale delle relazioni, il che pone già il discorso dell’io poetico al di fuori del proprio sé, proiettato su considerazioni in cui l’altro-da-sé diventa operatore essenziale al fine della visione d’insieme dei testi: non solo si riferisce alla contestuale percezione della prossimità tra esseri umani e della loro irrimediabile e incolmabile distanza, che spesso emerge dall’evolversi delle relazioni fino ad arrivare a tale consapevolezza allo stesso tempo insostenibile e dolorosa, e intensissima e corporale, per la sua imperfezione, che si sfianca contro le aspirazioni della nostra mente e della nostra carne, così desiderose di una compiutezza e di una stabilità assolute; ma “Prossimo e remoto” è anche la condizione in cui versa ogni elemento nella memoria individuale e collettiva, e richiama le tematiche caratterizzanti dell’autrice, come quella del tempo che consuma e deforma gli affetti, le relazioni e il senso, ingenerando una feroce e lancinante nostalgia per lo sfumare dell’esserci nella dimensione dell’incerto e del progressivo naufragio. È quella che Milo De Angelis con potenza sintetica magistrale chiama la forza dirompente dell’Alterazione, in postfazione, che la parola poetica della Rimolo testimonia con lucidità terribile, cercando di rinvenire delle modalità di relazione, in ultima istanza, con essa stessa – nel tentativo estremo di una riparazione dei frammenti che restano, in continua dissolvenza, e una difficoltosa convivenza, oppositiva, con questo divenire tremendo che ogni certezza muta, carezza e infine annienta.

L’opera è suddivisa in tre sezioni, “Microcosmo”, “Isola” e “Macrocosmo”: se “l’uso incosciente dell’affetto” è punto di partenza, pur in relazioni che appaiono complesse, contraddittorie, in cui la carne e la ragione, il desiderio e la volontà viaggiano su binari spesso inconciliabili, emerge “il rischio feroce dello spreco”, che, nonostante lo “strappo immedicabile” che dilania irreparabilmente, persuade a non rinunciare al momento, pur nella lucida coscienza della sua imperfezione, della sua morte; il mondo e i suoi elementi spesso rispecchiano nel testo (come già accadeva nelle precedenti raccolte, in particolar modo con l’elemento marino) la frattura relazionale e la coscienza dolorosa della fragilità di ogni cosa, e del sé (“un terreno franato / scomparso come noi siamo”). Già nella prima sezione i testi lentamente si orientano verso un punto di vista sempre più accogliente e attento alla dimensione dell’altro, dove le istanze dell’io del testo appaiono ridimensionate, funzionali: “Come dire che questo libro è scritto / per te … E tu hai mangiato? Hai bevuto? Vuoi fumare? / Com’è andato il viaggio. Quando torni a casa. / Dove abiti adesso. Dove eravamo tutti … prima di rimetterci in viaggio / e dimenticare la verità, ogni bene, la colpa”. Ecco l’attenzione a chi ci è prossimo, e allo stesso tempo lo scacco insuperabile della separazione, che confonde ogni certezza, mescola nella dimenticanza il vero, il bene, la colpa, nell’indistinto: una lucida consapevolezza che ha sempre contraddistinto la parola poetica di Eleonora Rimolo, qui ancora presente, pur nell’ottica delle relazioni, del dare e dell’accogliere, della reciprocità.

Ma l’assenza di questo slancio, pur nella coscienza della sua fragilità, della sua temporaneità, diventa sintomo di morte (“adesso tutto è carestia … le ore spente … galleggiano / portando alla foce i detriti dell’argine / che conteneva il ricordo”), immobilismo che forse non espone alla tempesta dell’esistere e dell’essere in relazione, ma che inaridisce e rovina, guastando infine la vitalità del corpo, ultima sponda di autenticità: “in un giorno reale … tu non senti più il vuoto … ma profumi di miti … eroi che travasano la superficie / nel nero abissale e saltano, di nuovo, per amore”.

Amore che è invece slancio vitale, si ribadisce, corporale, pieno; amore che vive nei corpi “elementari che volano eterni … scarnificati fino alla completa dissoluzione”, la cui sola percezione “non basta per esserci” e la razionalità, cosciente delle contraddittorietà del divenire, che in un attimo rende gli uomini un tempo vicinissimi pari ad estranei, quando tenta di ragionarci rischia di farlo apparire come un “goffo grido d’amore demente”.

Nei testi finali, in particolare gli ultimi due, il percorso del libro (e probabilmente anche quello iniziato in quelli precedenti) arriva a un punto fermo, significativo. Dopo la lucida analisi della precarietà delle relazioni, dell’insufficienza dei sentimenti, del loro improvviso ed imprevedibile fiorire e decadere nel nulla, irrazionale ed incontrollabile, vi è una dichiarazione di amore indistinto, trasfigurato nella prospettiva di una maternità simbolica e piena, come pura accoglienza: “A volte dimentico i nomi / ma lo giuro io vi amo, vi amo / più di quanto una donna possa amare / il suo uomo … non posso dimenticarvi bambini / miei, e non so fermare il tempo.” E nonostante il sogno di un tempo clemente e di un “ordine perfetto, impossibile”, come stella luminosa vista “nei telescopi degli altri”, la lucida coscienza del disordine e dell’imperfezione viene affrontata con lo slancio vitale di un accogliere pieno, materno, terrestre, corporale: “voglio essere madre anch’io di ogni singolo / figlio generato da un singolo seme / ed è questo l’unico dio che venero / e che prego quando la solitudine / stringe il cuore”.

Dal cuore di bambina disorientata che sembrava cercare la terra che potesse accoglierla e farla sentire davvero a casa, al diventare questo accogliere completo dell’altro, in senso più che ampio (torna qui in aiuto l’Alterazione di De Angelis, etimologicamente): un’autentica comprensione del mondo, del divenire e dell’esserci, non più in cerca di riparazione, ma capace di realizzare una prospettiva di significato nella dimensione del donare, della reciprocità, della “congiunzione naturale … dei sentimenti e dei pianti, dei godimenti intrecciati con un fiocco di stelle / luminosissime, che nessun buco nero / potrebbe mai spegnere”.

Che sia davvero così importa relativamente, perché crederlo consente di splendere completamente per tutta la vita che resta.

Mario Famularo

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