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Tutto è coperto di polvere – Sofia Demetrula Rosati
le parole scritte assumono la
forma paradossale di una verità
così antica che ormai non
importa più a nessuno e tutto
è coperto di polvere
non c’è più un corpo a
testimoniare o ad accusare
tutto è diventato antenato
e io sono qui costretta nel
mio ruolo perché un varco
almeno si apra e possa
iniziare a nutrirmi
*
madre
non fu con le parole
che distruggemmo
i tuoi altari?
(Sofia Demetrula Rosati, “La dimora del ritorno”, Anterem, 2021)
L’insufficienza della parola ad aderire al vero, la sua capacità parziale di restituire la realtà dell’esistere, del sacro, del quotidiano, dell’orrore e della dissolvenza, il suo passare così spesso attraverso l’inganno della mistificazione, della deformazione, anche involontaria, connaturata alla sua natura creativa di una dimensione altra: sin dai tempi più remoti della genesi del linguaggio concreto, per così dire, la fissità della parola ha significato un germogliare di mondi altri, che racchiudevano il nostro, pur mostrandosi in grado di essere, da questo, estremamente distanti – conforto, certo, orientamento, significato, ma anche al prezzo di dimenticare il reale del gesto e del silenzio, la contemplazione del mondo prima della parola che spesso vi è contenuto come una sua minima frazione.
È un paradosso in cui la parola poetica è costretta ad incappare, quando non si contenta di triti meccanismi e di una retorica ombelicale del diaristico; ed è altresì votata a ipotizzarne un superamento: anche questi versi di Sofia Demetrula Rosati tratteggiano questo conflitto bruciante tra parola scritta – consacrata, ancestrale, vera – e testimonianza dell’esserci, verità del sacro da cui quella parola è generata.
“le parole scritte assumono la / forma paradossale di una verità / così antica che ormai non / importa più a nessuno”, inizia il primo testo, proprio ad evidenziare come, nel tempo, tale distanza è diventata sempre più evidente, fino a slegare completamente la parola da ciò che si prefigurava di nominare, “e tutto / è coperto di polvere”, materia morta in cui “non c’è più un corpo a / testimoniare … tutto è diventato antenato”.
Ecco cosa manca, dunque: “un corpo a / testimoniare”, il vero che si incarna nell’esperienza, di cui la parola può essere solo un’approssimazione imperfetta, e mai una sublimazione che possa superarla: “e io sono qui costretta nel / mio ruolo perché un varco / almeno si apra e possa / iniziare a nutrirmi”; non è un caso che il tentativo di superare l’impasse attraversi (e più di una volta) la fisicità del corpo, nuovamente: la “costrizione” che, se anche figurata, rimanda ad una condizione materiale; e il “nutrimento” che rinvia ad una necessità fisica.
Come fare dunque ad “aprire un varco” che armonizzi la nominazione alla realtà nominata, la parola scritta alla materia su cui è incisa? Se la realtà impermanente e divina può essere la madre di cui al titolo del secondo breve componimento, innanzi tutto la Rosati ci ammonisce su cosa non fare, perché “fu con le parole / che distruggemmo / i tuoi altari”. Scrivere cosa ne consegue sarebbe un controsenso: più indicato sarebbe l’altrettanto ancestrale gesto di Arpocrate.
Mario Famularo
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