Ma la renna chi era?

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a cura di Eleonora Matarrese
disegno di Michaela D’Astuto

Era la Madre Cerva che solcava i cieli nella notte di mezzo inverno, più grande e forte del cervo maschio e con le corna sulla testa in questo periodo dell’anno, quando guida le greggi di renne: era la madre che dà la vita, adorata dagli abitanti preistorici delle isole britanniche, dei territori scandinavi, della Russia, della Siberia, e da lì oltre, sempre a nord, tramite lo stretto di Bering.

Gli stessi luoghi in cui, abbiamo notato prima, i popoli per tradizione consumavano l’Amanita. Quei popoli che dipendevano da lei per cibo, latte, abiti e riparo.

Era una figura adorata ben prima del Neolitico, associata con la rinascita del sole, la fertilità, l’essere madre, il dare la vita. Le sue corna adornavano altari. Erano sepolte nelle tombe cerimoniali; venivano rappresentate in gioielli e indossate come corone. La sua immagine si trova su standing stones, le pietre fitte, oltre che su rocce come quelle di Alta (e Val Camonica), e rappresentava l’albero della vita, che portava il sole, la luna e le stelle.

Era lei che si librava in volo la notte buia d’inverno per riportare il sole, la luce e la vita, sulla terra, al sicuro tra le sue corna.
Ce lo conferma anche una canzone popolare natalizia ungherese: “Oh miracolosa testa di cerva… tra le tue corna porti la luce del sole benedetto”.


Si sarebbe poi trasformata in Cernunnos, il dio cornuto fulcro del calderone di Gundestrup, dedicato al culto del sole che ritorna. Con il solstizio. E fondendo la divinità della fertilità e della natura con il serpente cornuto, con le corna di ariete. Quest’ultimo, creatura mitologia ibrida, fondeva la fertilità simbolica dell’ariete con i poteri rigenerativi del serpente di mediterranea memoria. Unendo così Oriente e Occidente in una palude scandinava, piena di Sphagnum e circondata di Amanita. Per i Sami, popolo indigeno dei paesi nordici, Beaivi è il nome della dea del sole, associata alla maternità, alla fertilità delle piante e… alla renna.


Nel solstizio d’inverno si spalmava burro caldo (simbolo del sole) sulla soglia della porta come sacrificio per Beaivi così che potesse fortificarsi e volare sempre più in alto nei cieli.

Beaivi spesso era raffigurata accompagnata da sua figlia, circondate da corna di renna, e insieme entrambe donavano nuovamente verde e fertilità al suolo. Molte divinità invernali nelle leggende del Nord erano associate al solstizio: prendevano la via del cielo accompagnate da un gruppo di animali volanti.


C’era Saule, la dea lituana e di Latvia, dea del sole che volava per il cielo su una slitta portata da renne con le corna, e che gettava pietroline di ambra – simbolo del sole – nei camini. Diversi studi storici delle origini pagane del Natale approfondiscono il legame tra il costume di Babbo Natale e l’Amanita ingerita dallo sciamano.


Pochi narrano che in realtà era la sciamana che in origine vestiva di rosso e di bianco, abiti rifiniti di bianca pelliccia, con le corna di renna in testa. Era un abito da cerimonia indossato da donne guaritrici in Siberia e Lapponia, in principio verde e bianco, e il cappello era rosso, gli stivali a punta, guanti di renna.
Mary B. Kelly in Goddess Embroideries of Eastern Europe ha approfondito lo studio dell’immagine della dea madre sotto forma di renna nelle stoffe sacre delle donne.
L’immagine della dea madre Rohanitsa viene spesso rappresentata con le corna di renna e mentre dà alla luce sia un cervo che un bambino.
Per la sua festa alla fine di dicembre, intorno al solstizio, si preparano ancor oggi dei dolci ricoperti di glassa bianca che ricorda il ghiaccio, a forma di renna, che si regalano come simboli di buona fortuna, e stoffe ricamate di rosso e bianco con la sua immagine.
Il Kichko russo, ancora, era un antico copricapo che le sciamane indossavano. Con le corna come la renna, rosso e bianco, rifinito di bianca pelliccia.
Gli antichi rituali preistorici che dominavano prima del V secolo, l’arte e le tradizioni orali prima della scrittura, tutte quelle storie durante le lunghe lune invernali, le celebrazioni della vita: tutto ciò che fa parte delle arti popolari primitive sia dei popoli slavi che dei Balcani che del Nord Europa sono oggi indizi lasciati in tutto il mondo, in archeologia, nell’arte e nei fili di antichi tessitori. sono anche nascosti nel “sottile”: immagini, petroglifi, acconciature, canzoni, balli in cerchio e aspetti del simbolismo pre-pagano più ancestrale.
Un particolare lignaggio sciamanico antico ha ancora una tradizione moderna oggi: si evince proprio dai copricapi delle donne balto-slave, indossati anche in Russia.
Quello che viene chiamato “kichka cornuto” ha somiglianza anche con i tradizionali copricapi norvegesi, svedesi e finlandesi, ma anche quelli dei Balcani di Georgia, Estonia, Lettonia e Lituania. Assomigliano tutti a un tradizionale copricapo “di base”. I copricapo preistorici o sciamanici erano in origine realizzati con corna di animali: alci, cervi, arieti, attaccati a un copricapo per definire il potere delle donne capo clan. Le nonne-sciamano o i capi più esperti indossavano le corna più grandi; le madri (donne adulte) le più piccole e alle fanciulle non era permesso indossarle.


Questi antichi copricapo sono oggi limitati alle ragazze che si sposano e indossano il “cappello delle spose”. La tradizione odierna dei “cappelli delle spose” si chiama kichko, kokoshnik, kika (кика (головной убор).


I misteriosi riti della donna nello sciamanesimo pre-pagano furono in seguito definiti, in epoca pagana, come quelli della “maga dai capelli d’argento”, la bellissima filatrice della dea Mogosa; mentre la sua gonna, fatta di stoffa grossolana, ricamata con simbolismo, e la testa, incoronata dal suo “kichko cornuto”, la rappresentavano come dea del destino.

Questi copricapo sono composti da due corna orizzontali. Il “kichko cornuto” (anche kika e a volte kichka) è tipico delle aree slave e russe. Dal XIII secolo, per non perdere l’usanza sciamanica di cui il kichko è simbolo, le donne avrebbero integrato il loro copricapo in cerimonie moderne religiose come i matrimoni, mantenendone vivo il valore, senza però utilizzare corna di animali.

Il kichko o kichka e il chelo kichnoe furono menzionati per la prima volta in un documento scritto nel 1328, quando furono indossati da donne delle province meridionali di Tula, Ryazan, Kaluga e Orel e le donne in tale circostanza indossavano ancora i copricapi con corna di alce, montone, cervo o altre corna considerate talismani sacri. Le donne sciamano li indossavano anche come modo per proteggersi dalle anime-ombra degli individui che vagavano tra i clan e quindi tra i villaggi. Il kichko era molto diffuso nelle regioni di Arkhangelsk e nella provincia di Vologda in Russia e successivamente (X-XIII secolo) anche presso gli antenati finno-ugri, usato da donne indigene. Le giovani donne non potevano indossare tale copricapo, soprattutto nelle cerimonie della tribù; così come anche le anziane e le madri non lo indossavano mai al di fuori delle cerimonie.

La nazione russa era formata in origine da due gruppi etnici di base, gli slavi e i Merja: i Merja erano i creatori del “kichka cornuto” ed è per questo che i loro copricapi sono più antichi e così diversi, con riferimenti agli animali tipici delle culture sciamaniche. 

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Una delle dee che porta questa tradizione è Rozhanitsa, una dea ma anche un vecchio spirito della Luna, basato sul credo nella Natura.


In epoca pagana, sovrintendeva alle dee del destino, come le Moire greche.


La regina di Rozhanits era la Baba dorata della Russia, che proteggeva i popoli slavi durante i mesi invernali, finché non fosse stato raggiunto l’equinozio di primavera. Ciò rende Rozhanitsa parte delle “Nonne dell’inverno”: Maslenitsa, Marzanna, Morena, Mara e Mora. È una divinità femminile slava un po’ oscura. Il suo giorno era quello del solstizio d’inverno. Una nonna invernale, dipinta con le corna d’alce o di cervo. In realtà non si trattava di una nonna sola, ma di un cerchio di potenti donne anziane che guidavano il clan e la tribù. Le venivano donati pane, miele e formaggio durante le settimane prima e dopo il solstizio d’inverno. Più avanti era tradizione donarle dei biscotti bianchi a forma di cervo.


Alcune donne in Russia continuano a festeggiare la Festa di Rozhanitsa, e si pensa che questa festività sia tanto antica, addirittura che risalga al X secolo.


In epoche successive la festività fu spostata nel calendario diventando la “festa dell’asta e di Rozhanyts dell’equinozio d’autunno”.  

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Ritrovamenti in una tomba: un antico copricapo sciamanico femminile antecedente al X secolo
 

C’è anche un copricapo chiamato “copricapo della gazza” e, come il kichko, non ha le corna che definiscono così l’aspetto/lo stato di “fanciulla”.

L’insolito copricapo “da gazza”, a volte decorato con penne di pavone, era rappresentativo del gruppo etnografico delle donne di Novosilkih Cossack, che viveva in diversi villaggi dell’ex contea di Novosilski Tula. N. M. Mohyla, studiando questa regione, scrisse: “Gazza – vecchio copricapo russo di donne, ampiamente distribuito nelle parti centrali della Russia così come in alcuni gruppi mordoviani. Era il più sontuoso tra i cappelli fino all’inizio del XX secolo, quando cadde in disuso”.

Il copricapo da “gazza” ha la stessa struttura del kichko, ma la parte sulla fronte è più bassa; lateralmente invece è più alto. Venivano aggiunte perline, piume, nastri e fiori. Era sempre decorato con ricami. Spesso veniva attaccato al copricapo contadino delle donne. Il copricapo “da gazza” è il più misterioso perché sia le donne cinesi che le slave hanno quasi lo stesso copricapo “cornuto” nelle loro tradizioni, di forma base rotonda. I cinesi antichi wei, shu e sui-shu dicevano che le loro tribù Tochar (Tu-ho-lo) avevano un copricapo simile, indossato dai Bashgali-kafir nell’ovest e nel Chitral Yarkand.

Qui le corna del copricapo simboleggiavano le culture sciamaniche femminili, esattamente come le nonne in Russia.  

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In Cina il copricapo “gazza” ha un significato spirituale: è il ponte del paradiso, tra sposa e sposo (simbolicamente il significato è tra mente e anima). La gazza è un animale totem, un mezzo spirituale che indica l’unione del sé con la propria anima – come nelle religioni orientali simili al buddismo moderno -.

Nelle tradizioni slave della contea di Medynskiy e nella provincia di Kaluga si dice che è un’usanza che la virtù della gazza sia di pronunciare l’unione matrimoniale (Zelenin Opis, manoscritto 579).

Una piccola quantità di argento nel filo di una piccola spoletta di filo sul copricapo fa riferimento alla gazza.

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Dall’Asia centrale, un copricapo Saukele del Kazakistan

Viene aggiunta poi una stoffa di seta spessa, tessuta in quattro fili anziché tre, sul retro. Questo ricorda fortemente le trecce di una fanciulla, ma è una moda relativamente nuova, che risale probabilmente al XVIII secolo.

A collegare gli oggetti cuciti, le loro estremità superiori sono costituite da un nastro stretto, il Plánochka, legato alle corna su cui spesso venivano ricamati simboli speciali. A volte venivano cucite anche delle ali – anche qui, il riferimento alla gazza -.

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E infine, non poteva mancare la coda, realizzata con delle corde. Penza Krotkov scrisse nel 1854, parlando dei copricapo “gazza” del locale distretto di Saransk: “Se guardi il copricapo dal retro, sembra di guardare un uccello seduto con le ali piegate” (Zelenin Opis, manoscritto 976).

Nella zona di Belarus il copricapo è lo stesso ma realizzato con diversi tipi di tessuto e in diversi colori – rosso e blu scuro, mentre i lati sono gialli – (Ethnographic Collection Geographic Society, II. SPB . 1854, p. 133). 

Considerando che la maggior parte delle sciamane in queste antiche terre erano in origine donne, è probabile che il loro abito tradizionale sia la vera fonte per il costume di babbo Natale. Così come, analizzando l’area di consumo dell’Amanita muscaria, è molto probabile fossero loro a ingerirla e partire per i voli sciamanici con la renna in una caccia selvaggia nella notte più scura dell’inverno.

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Fonti: vari paragrafi da diversi siti internet, Wikipedia russa, bolesmir.ru Foto di Olga Vinnikov Foto del copricapo saukele © Peter the Great’s Museum.