Matisse. Arabesque, ficcanasando alle Scuderie del Quirinale.

La candeur de ce buste surprend au milieu de l’orgie des tons purs.
Ah, Donatello au milieu des fauves.
Il candore di questo busto desta stupore in mezzo a un’orgia di toni puri.
Ah, Donatello in mezzo alle bestie selvagge.

Così scrisse il critico d’arte Louis Vauxcelles sulla rivista Gil Blas in merito ai quadri esposti nella terza edizione del Salon d’Automne del 1905. La sala numero VII, al centro della quale si trovava una piccola scultura in bronzo raffigurante un bambino, ospitò le opere di un certo Henri Matisse e di alcuni giovani artisti. Fu battezzata la gabbia delle belve. Pubblico e critica non ebbero dubbi e condannarono quest’arte eccentrica e oltraggiosa che utilizzava colori violenti e lontani dalla realtà: il fauvismo.
Le origini di Matisse potrebbero ricondursi a questa breve esperienza artistica legata alla pittura fauve ma, in realtà, si tratterà semplicemente di un passaggio verso nuove ricerche a cui il professore (così era chiamato nell’ambiente) si dedicherà nell’arco di tutta la sua vita.

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La palma (Mattino di marzo vicino a Tangeri)

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Donna in riposo e Odalisca distesa, pantalone turco

Nella mostra Matisse. Arabesque, ospitata a Roma nelle Scuderie del Quirinale, il curatore Ester Coen pone l’attenzione sul Primitivismo che influenzò il pittore, sulla sua passione per l’arte africana, fino ad arrivare al tema principale: l’Arabesque, l’Oriente.
“Nella duplice natura di questo titolo è compresa la forza di un’idea che, contemporaneamente, allude a una visione concettuale, all’interpretazione di una superficie pittorica, al richiamo di tradizioni culturali che nell’ornamentazione racchiudono il senso di una simbologia fondata sugli archetipi di natura e cosmo,” dice Ester Coen, precisando che “il motivo della decorazione e dell’orientalismo è per Matisse la ragione prima di una radicale indagine sulla pittura, di un’estetica fondata sulla sublimazione del colore, della linea.”

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Ritratto di Yvonne Landsberg

Grazie alla collaborazione tra i maggiori musei del mondo – Puškin, Hermitage, Pompidou, MoMa, Tate, Metropolitan per citarne alcuni – e di diverse collezioni private messe a disposizione per il pubblico, la mostra ci permette di entrare nell’arte di Matisse ammirando le opere, le ceramiche decorate, i tessuti e gli abiti di scena che l’artista realizzò per il balletto Le Chant du Rossignol di Igor Stravinskij.

Passeggiando tra le sale scopriamo come Matisse abbia attraversato il Marocco, l’Algeria, l’estremo Oriente, cogliendone l’essenza più intima e maturando, nella sua esperienza di uomo occidentale, una sensibilità che lo porterà ad unire diverse culture nelle sue mani.
L’incontro con l’arte islamica sarà la spinta ad inserire nei quadri motivi orientali significativi trasformando le linee e la ricerca del colore in un vero e proprio schema compositivo. Lo stesso Matisse, nel 1947, scriverà al critico Gaston Diehl: “La révélation m’est venue d’Orient”, e ancora: “La preziosità o gli arabeschi non sovraccaricano mai i miei disegni, perché quei preziosismi e quegli arabeschi fanno parte della mia orchestrazione. Ben collocati, suggeriscono la forma o l’accento di valori necessari alla composizione del disegno”.

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Paravento moresco

Tra i quadri, le ceramiche e i tessuti esposti, la mostra ci racconta anche un piccolo aneddoto sulle illustrazioni che il pittore fece per il famoso libro di James Joyce, l’Ulisse. Disegni che l’artista realizzò su commissione della casa editrice ma che trassero ispirazione dall’altrettanto famosa Odissea di Omero. Lo scrittore, convinto che Matisse conoscesse molto bene l’edizione francese della sua opera, rimase alquanto infastidito quando apprese quale fosse la reale fonte d’ispirazione del pittore e firmò soltanto duecentocinquanta copie dell’edizione illustrata dell’Ulisse contro le millecinquecento firmate da Matisse. A chi gli chiese come mai i suoi disegni avessero così poco in comune con l’Ulisse di Joyce Matisse rispose semplicemente: “Je ne l’ai pas lu” ( Non l’ho letto).

Dopo aver appreso delle collaborazioni con Joyce, con Mallarmé ( sono esposti diversi studi per il poema L’Après-midi d’un faune), dopo aver ammirato le odalische, arriviamo verso le ultime sale e ci troviamo di fronte un Matisse scenografo.
È del 1920 la realizzazione dei costumi e dei bozzetti per le scene di Le Chant du Rossignol di Sergej Diaghilev. L’opera di Stravinsky, curata dal coreografo Léonide Massine, si arricchisce di tutta l’esperienza artistica di Matisse che coinvolge, in un dialogo visionario, i Balletti Russi, l’Oriente, l’Africa, fondendo i diversi linguaggi della cultura del Novecento. 


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La macchina teatrale ci accompagna nell’ultima sala, dove sono esposti Studi di fiori e fogliame, di arbusti, di platani, e la tela de I Pesci Rossi – fondale impeccabile come commiato. L’amore di Matisse per la natura resterà un sentimento espresso non solo nei suoi quadri ma anche in alcune riflessioni che – in fondo, e perché no? – possiamo considerare una piccola poesia:

L’intensità di questi colori, la loro materia è inarrivabile: a volte tengo i fiori vicino, a fianco dei miei quadri, come diventano poveri e sordi allora i miei colori! Come si può trasporre nei quadri un bianco profumato e leggero come questo?”. 

Galleria 

Furtivisme – ma non Le Chant du Rossignol!
La sorveglianza delle Scuderie ormai sa
del mio viso, non mollerò sono la maniaca
con una mano all’audio-guida, l’altra al taccuino e l’altra
sotto al giacchino con un cell in mano
Pamela Proietti.