Murasaki Shikibu e Virginia Woolf

源氏物語 e Virginia Woolf
a cura di Lisa Orlando

 

 

Bisognerebbe vergare con splendido inchiostro porpora il nome della scrittrice giapponese Murasaki Shikibu; di lei si conosce molto poco: la sua vita è databile approssimativamente tra il 973 e il 1014. Tuttavia, resta, di lei, il Genji monogatari, uno dei massimi capolavori della letteratura giapponese così come della letteratura di tutti i tempi, considerato dalla critica il “primo romanzo moderno”.

Giugno del 1924; mille anni più tardi la storia di Genji approdò (chissà per qual misterioso destinale percorso) nelle mani di Virginia Woolf, nel pieno cuore di Bloomsbury. Virginia lesse il Genji monogatari, e (affascinata) iniziò subito a scriverne; nel 1925 fu pubblicata una sua recensione elogiativa su “Vogue”.

Fin dall’inizio, Virginia provò a riassumere in forma comparativa la più significativa differenza: all’epoca di Murasaki, i suoi antenati avviluppati dal senso del pericolo, tremanti avevano appena un foglio in mano. In quegli stessi anni, dall’ altra parte del globo, Lady Murasaki, con vocaboli magici, contemplava aiuole di fiori bianchi con petali appena dischiusi «come bocche di gente che ride ai propri pensieri».

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Lady Murasaki (possiamo immaginarla al chiaro di luna?) leggeva – con un piacevole effetto immersivo – le storie di Genji a uomini e donne che, non necessitando di racconti di guerre per eccitarsi, si lasciavano catturare profondamente nelle pieghe della natura umana. La loro attenzione si concentrava su come un uomo (Genji) si appassionasse di una donna, e poi di un’ altra; in qual modo spasmodico desiderasse le cose che gli erano negate. Come aspirasse alla tenerezza, all’ intimità, e mai riuscisse a raggiungerla. Come riuscisse a sorprendersi della neve che cadeva. E come godeva di quanto fosse bella!

Murasaki visse in un’ epoca in cui né la guerra né la politica signoreggiavano, opprimendo l’esistenza. Pertanto, affrancata dalla tensione violenta di queste due forze, la vita all’ epoca di Murasaki si esprimeva (sotto una luce indagativa) in complesse narrazioni dell’agire umano. È una scrittrice realista – scrisse Virginia. Ma se il realismo in Occidente significava unire alla bellezza della vita le ombre di bruttura e di orrore che le sciamano intorno, non era di questo tipo il realismo di Murasaki: «una qualche radice dell’esperienza è stata estirpata dall’oriente» scrisse Virginia, sì che volgarità e rudezza sono state estromesse.

Genji – personaggio ormai indimenticabile – è un libertino senza malignità né furberia, e il mondo del piacere si configura come un impero dei sensi che non prelude a nessuna prevaricazione, a nessuna violenza. Genji è un eroe gentile; beneficia della vita e delle sue bellezze; ne riconosce il nodo scorsoio della caducità, eppure gode lo stesso dei piaceri sensuali.

A Bloomsbury, mille anni dopo, nonostante la vita fosse diversa, si stava provando, allo stesso modo, a sopprimere la violenza dai rapporti umani, e sperimentando forme di vita che non operassero sul senso di colpa, ma sul senso del piacere
Parte del fascino che Murasaki esercita sul lettore, è senz’ altro da attribuire a quel “sapore esotico”, affermò Virginia, sì che quando leggiamo di «case come se ne scorgono ovunque», quelle case hanno pur sempre un’ aura straniante. È per tale estraneità che potremmo consentirci, al fine, un’ultima osservazione.

Più volte la scrittrice, nel suo romanzo, innalza un inno alla scrittura, intendendo propriamente la calligrafia, spostando l’attenzione al gesto, all’aspetto puramente manuale. E allude a un piacere del tutto speciale, un piacere più grande di quando nella parola ricerchiamo l’ombra del significato, un piacere della piena presenza della parola. È la scrittura che è (intrinsecamente) bella, ché bello e prezioso è quel deposito del gesto umano, e che mai (mai!) avremmo dovuto far finire: ecco una nostalgia davvero insanabile, ecco un impero dei segni e dei sensi ineluttabilmente interdetto a noi mortali.