Recensioni
Nelle pieghe del libro: La vita impressa di Ranieri Teti, Book, 2022
a cura di Giuseppe Martella
Opera a gestazione lenta, come si evince dalle date poste in parentesi sotto il titolo, quest’ultima di Ranieri Teti, ma da leggersi tutta d’un fiato tenendo dietro al profluvio di immagini e accenti evocati, per poi magari tornarci su diverse volte a sviscerarne aspetti, risvolti, riflessi prismatici cangianti a ogni nuova lettura. Perché si tratta di un’opera aperta, di un work in progress come Joyce ebbe a definire il suo Finnnegans Wake che già si collocava al di là della forma romanzo, annunciando anche la fine della civiltà della stampa, l’implosione della Galassia di Gutenberg, destinata a diventare nicchia ecologica e nutrimento della nuova civiltà dei media, in cui ora ci troviamo pienamente immersi. Finnnegans Wake non era già più adatta alla lettura lineare del testo, quanto piuttosto alla performance occasionale di alcune sue parti, in una sorta di canto parlato (Sprechgesang) a turno, magari intorno a un bel fuoco e a un boccale di birra, come fanno infatti i cultori di Joyce in tutto il mondo. Qualcosa di simile, in scala ridotta, si potrebbe forse fare anche per La vita impressa che, più o meno deliberatamente, ricrea un flusso (riverrunn) di oralità custodito nelle pieghe della sua scrittura e nella rilegatura del libro. Perché se “il linguaggio è la casa dell’essere” come suggerisce Heidegger, il libro nel costituisce il sancta sanctorum, il luogo sacro dove la vita può assumere un senso e un valore non effimeri: ‹‹tutto il mondo esiste per costruire un libro›› recita infatti un celebre detto di Mallarmé.
Durante le mie riletture de La vita impressa sempre più percepivo un dialogo sotteso fra le sue pagine e quelle di Mallarmé su Le livre come quint’essenza del poetico. Fra i numerosi fili conduttori possibili scelgo dunque proprio questo raffronto come segnavia della mia breve nota e leggo La vita impressa come responsorio a distanza di Quanto al libro e sul Libro come e strumento spirituale , dove lo statuto simbolico del libro e la sua possibile crisi vengono annunciati con largo anticipo.
Qui è proprio il concetto di “piega” o di “rilegatura”, fulcro della poetica di Mallarmé, che viene in luce segnando la definitiva secolarizzazione della religione del Libro. Ogni decisione esistenziale si risolve ora infatti per Mallarmé in un atto di scrittura: ‹‹il tuo atto sempre si applica a della carta; infatti, meditare, senza tracce, diventa evanescente›› ed è questa evanescenza che bisogna esorcizzare spersonalizzandosi, sì da poterla fissare sulla carta, da poter vergare col ‹‹calamaio, cristallo come una coscienza››, ‹‹l’alfabeto degli astri››, scrittura siderale, ‹‹questa piega di oscuro merletto che trattiene l’infinito›› e infine aprire il libro del cielo, in cui solo può vivere ‹‹lo spirito soddisfatto››. Il libro dunque, ‹‹tra gli accessori umani è unico; fatto, esistente››, dove ‹‹il senso sepolto si muove e si dispone nei fogli in coro››.
L’angoscia della sottile canna pensante-scrivente che è l’uomo, può trovare insomma sollievo solo tra le copertine di un libro. Mallarmé infatti oppone esplicitamente la chiusura del libro alla impaginazione provvisoria e volgare del giornale, che ‹‹svolazza […] aperto in mezzo all’aiola››, lembo esposto al vento della novità, all’improvvisazione, all’irruzione del quotidiano, ‹‹all’incoerenza di grida inarticolate››, sfoggiando uno ‹‹sfolgorante e volgare vantaggio›› sul ‹‹libro, supremo››, sacro, atemporale, eterno. Nella cui rilegatura e spessore materiale si s/chiudono il senso della storia, la legge del cosmo e lo scrigno della psiche: ‹‹la piegatura è, in rapporto al grande foglio stampato, un indizio quasi religioso; che non colpisce quanto il suo accumularsi in spessore, che offre, certo, la minuscola tomba dell’anima››.
Ma la funzione della poesia come gioco assoluto del mondo, si compie solo nell’atto della lettura come esecuzione di una partitura che detta il ritmo spirituale dell’esserci che, abbandonandosi alla contingenza della dizione-ostensione (Dichtung-deiknumi: sillabare-indicare), della singola frase, si affranca dalla insignificanza dell’evento vissuto. Sicché non vi è ‹‹nulla di fortuito là dove sembra che un caso catturi l’idea [perché …] immemorialmente il poeta seppe il posto di quel verso, nel sonetto che si iscrive per lo spirito o su spazio puro.›› Partitura dello spirito, dunque, che prende vita nell’atto di lettura come esecuzione musicale, nel ‹‹va e vieni successivo, incessante dello sguardo, finita una riga alla seguente, per poi ricominciare […] esecuzione attiva, come di brani sulla tastiera, misurata dalle pagine.›› Musica muta, ‹‹un solitario, tacito concerto›› che incarna e custodisce l’idea, a partire comunque dalla ferita inaugurale inferta all’oggetto materiale, alla ‹‹piegatura vergine del libro››, dal tagliacarte, pendant della penna o stilo, che riapre lo spazio letterario, in cui il tempo e lo stile di lettura si incontrano con quelli di scrittura, istituendo quel fragile effimero ferreo patto tra parole e cose che è l’opera come oggetto-evento le cui ‹‹pieghe perpetueranno un sigillo, intatto, che invita ad aprire, a chiudere la pagina, secondo il maestro.››
Solo in base al presupposto tecnologico, alla piega materiale, si istituisce allora l’ipotesi di quella semantica che consente di de-costruire infinitamente il senso del testo senza più ormai uscire da esso, dal libro-del-mondo (“il n’y a pas de hors texte”, suonerà a distanza il ben noto aforisma di Derrida). Ogni decostruzione in avvenire è già infatti consapevolmente racchiusa nella declinazione mallarmeana della metafora radicale della civiltà letteraria. Nella presa d’atto della rilegatura e dell’artificio tipografico come ultima origine dello spazio artistico e d’ogni evento di verità (l’Ereignis di Heidegger) nell’orizzonte della civiltà letteraria.
Qui vengono mostrate nella ‹‹visione simultanea della pagina›› le ‹‹suddivisioni prismatiche dell’Idea […] in una messa in scena spirituale esatta››, che si sviluppa ‹‹attorno a pause frammentarie di una frase capitale introdotta fin dal titolo e sviluppata››. Quanto a dire che nel segno di una dominante visiva (riduzione prospettica della ‘musica di idee’) si istituisce l’ordine tipografico del testo come base di quello tipologico o figurale che ha avviato (già fin dalle Sacre Scritture) l’evoluzione del sistema letterario in quanto ripartizione e ricorso di tratti dominanti in uno spazio presuntivamente autonomo, assoluto ed assolto dai suoi debiti mondani, del tutto auto legittimato.
Nella scansione grafica della pagina del Colpo di Dadi si trova la quint’essenza dello spazio letterario come spazio simbolico egemone, luogo di una possibile donazione di senso all’esistenza effimera. Ma anche luogo in cui, nella esibizione dell’artificio grafico come presupposto della convocazione di suono e senso, della loro poetica coincidenza, si denuncia il contingente tecnologico che la fonda e si annuncia l’incrinatura stessa della sua tenuta, l’apertura di possibili spazi simbolici alternativi, basati su nuove tecnologie dell’informazione. Nella imitazione grafica, sulla pagina, della disseminazione statistica degli eventi nel tempo, dell’azzardo ineliminabile dal colpo di dadi, vi è il segno inequivocabile della rottura del patto vigente fra parole e cose nella tarda civiltà della scrittura, e si avverte il presagio di un nuovo ordinamento probabilistico dell’esperienza e delle sue simulazioni, di un inedito spazio dello scrivere, del ciberspazio come ultima quasi-mistica allucinazione consensuale.
Questa lunga digressione su Mallarmé mi consente di chiarire in che senso io credo che il libro di Ranieri Teti possa leggersi come un controcanto atonale o meglio ancora un compimento tipologico di quell’annuncio di un passaggio epocale (nella civiltà della scrittura) che si trovava tra le righe dei testi di Mallarmé. Tutto l’impianto del testo di Teti va implicitamente in questa direzione, nella costante reciprocità di scrittura e vissuto, fin dall’inizio: “si vive, progressivamente entrando nell’ordito di un ritorno, con il rumore degli aghi nelle impunture, la pazienza degli aghi nelle suture, tra le divisioni in parti diseguali della memoria, echi di mitosi e battiti, ritmi di fogli e palpebre, tessuti di una carne sola come solo viene il vento, in silenzio e contro tempo” (13) Per l’io poetico, il senso scaturisce da una ferita profonda nel cuore del libro “nel terreno bianco di una pagina, dove sempre in nero vestono, le parole, quelle dopo le nominazioni…che nascono nel fondo dove origina la ferita e le sue due rime, quelle nella cui pienezza è radicata l’erranza, tra vastità e confini nella sostanza di questo viaggio, nel loro confondersi la finitezza e l’apertura”. (17) E la vita impressa si deposita la dove “il perduto si chiama ricordo… nella dissezione dei margini, animandone le forme mentre si fanno immagine, tessendo tele disfatte…dove tutto è solo nei frammenti, solo nell’andare, nel vibrare in presagi, nel cadere per la memoria di un inciampo, in troppa terra, in tanto fango tramandato” (29)
Mentre la rilegatura del libro cede alla pressione della vita, in un costante parallelo fra testo e territorio: “ci sono fogli di vie interrotte sul vuoto, in un terreno bianco che si smargina a dismisura…dove ci sono parole che sono paesaggi, luoghi pieni di presagi…e cosí scavando pagine, vibrando trascorrono le storie, le strade o le rotaie, dove tutto si deposita o parte per tempo, per dove bastano i nomi a fare la vita” (35)
La struttura aperta e atonale del testo di Ranieri sottende la decostruzione della metafora del Libro del mondo, che già si presenta come libro bianco in Mallarmé, nella cui rilegatura e spessore materiale si s/chiudono il senso della storia, la legge del cosmo e lo scrigno della psiche, mentre la partitura dello spirito prende vita nell’atto di lettura come esecuzione musicale della terza persona, che ora possiamo leggere come il tracimare del vissuto nel testo: “nel terreno bianco di una pagina, dove sempre in nero vestono, le parole, quelle dopo le nominazioni”, (17) dove “scavando pagine, vibrando trascorrono le storie”, (33) “nella punteggiatura degli spazî…dove la parola viaggio è un cartello che segnala uno sfarinarsi di strade” (39). Dove la rilegatura del libro si sfalda e i fogli appaiono come “vie interrotte sul vuoto, in un terreno bianco che si smargina a dismisura, a sovrimpressioni, nell’incolore delle dissolvenze dove entrano ombre di lettere” (35), per poi fissarsi sinestesicamente in “un’istantanea controluce”, in “un calco di canto o da un’impronta di voce” in “frasi e crittografie del sentire” fino a svanire nella trasparenza di questo tempo che ci ingloba “tra finzione e refurtiva” e ridursi all’“inciso sul retro di un foglio” (45), sillabe nere in lettere morte (53), “nello spettacolo delle parole” moltiplicate dai media, ai margini dell’ordito che si scuce. (59) Nella reversibilità della serie, nel gioco aperto di memoria e oblio, nella reciprocità di testo e territorio: “libro con i versi dimenticati dove sono stati scritti, cosí alla fine di un libro un istmo, a un passo dalla fine l’apertura, nel gioco del rovescio”. (63) E nella conclusione del poema, la rottura della piega, lo scioglimento, l’esondazione della scrittura nella vita e la reciproca irruzione di quest’ultima nello spazio sacro del libro del mondo: “alla fine tutto è ritornato inchiostro e pellicola,…rifugio del nero nell’assedio del bianco…gli inchiostri nella vita delle cose mute, il loro porsi accanto con il gesto dei passi sospesi, delle onde che si allungano nelle vertebre, come ombre sotterranee. (65)
Ecco, a me pare che La vita impressa di Ranieri Teti, si possa leggere come un controcanto atonale a distanza delle celebri riflessioni di Mallarmé sulla letterarietà dell’esserci, in condizioni tecniche e culturali assolutamente diverse, sulla soglia di una mutazione antropologica se non addirittura genetica del genere umano. Il tema della soglia, della cesura, è infatti prominente nel testo di Ranieri, a vari livelli e con infinite sfumature, facendo tutt’uno con quelli del fiume della storia e dell’istmo della mappa del mondo, perché i confini possono sempre diventare passaggi. Quella fra mappa e storia è qui peraltro una opposizione tematica importante, che si affianca ad altre come: trama e ordito, memoria e oblio, figura e fondo, dettaglio e disegno, finitezza e apertura. Sono tutte polarità ricorsive, perché il principio costruttivo di questo testo è quello della ripetizione che fa la differenza, in una serie aperta di permutazioni semantico-strutturali che ci conducono avanti e indietro nel testo, precludendoci però la possibilità di una conclusiva chiusura del circolo ermeneutico. E’ il grande modello letterario del nostos omerico a risultare qui infatti esplicitamente impraticabile se è vero che, come si legge nella breve nota iniziale dell’autore, “il viaggio è diventato alla fine il suo viaggiatore” e che l’esperienza che si svolge “tra scrivere ed essere scritti”, può condurre al massimo a “un’ebbrezza di placamenti”, una sorta di rêverie in controtempo che non esclude affatto però la concretezza del vissuto, la certosina ricucitura del suoi lacerti, “la pazienza degli aghi nelle suture”, dove la sapienza poetica coincide con la dedizione etica, nell’atto dell’“eredità portata in dono alla terra”, benché “in un salto rimasto a mezz’aria…nell’oltranza diminuendo”, nella labilità delle scansioni del testo che nella sua impaginazione si sviluppa sulla soglia tra prosa e verso, tra “astrazioni e figurazioni”, in controtempo. Senza nulla togliere alla matericità dei vissuti, alle ferite e alle ricuciture della carne del mondo, in una preziosa deliberata equivalenza tra testo e territorio, dove “tutte le strade del ritorno diventano rughe di vólti, cicatrici riaperte sui ricordi”. (49)
La vita impressa, Ranieri Teti, Book Editore, 2022
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