Phaedra in speculo: un personaggio senecano – Parte 2/5

A cura di Rosalba Pipitone

Parte 1

fedra

L’anafora del non sottolinea pessimismo e phatos ed evidenzia la resistenza e la persistenza del tormento amoroso, reso dal climax dei verbi alitur et crescit e poi ardet, che riprendono l’azione dirompente dell’esplosione vulcanica, sottolineando l’inarrestabilità, l’evolversi, fino all’exundat, della forza che scuote l’animus. Come una novella Didone che, intrappolata nelle spire di Amore, non si occupa più del suo quotidiano, così Fedra, infiammata d’amore, rifiuta le arti femminili; rifiuta di compiere riti sacri, di rivolgere preghiere, conscia della mancata pietas [5]. Piuttosto vorrebbe (libet) inseguire fiere nei boschi, secondo quello stile di vita selvaggio che è di Ippolito, tralasciando il portamento regale di una regina, ben sottolineando dall’ossimoro rigida molli/gaesa manu (vv. 110s.).
L’impazienza è sempre più forte, la passione è travolgente ma Fedra, consapevole di ciò, tenta per un momento di allontanare da sé il furor, di sfuggire la follia, richiamando se stessa all’ordine, interrogandosi fortemente: Quo tendis anime? quid furens saltus amans? (v. 112) e riconoscendo nel suo furor l’impronta del miasma materno (vv. 113s.).
Si potrebbe congetturare che la passione di Fedra per Ippolito sia prestabilita e inevitabile, per una sorta di richiamo della natura, trascurando se essa sia benigna o maligna, nel luogo deputato, ovvero i boschi; come una sorta di destino a cui nessuno dei due può sottrarsi. Le silvae sono il punto di unione, di incontro, tra due diverse nature: l’una sceglie di viverci e di farne parte, l’altra le eredita da un legame peccaminoso.
Il furor prende corpo sempre più, intrappola la protagonista, da qui sino alla fine del dramma, in un inferno [6] che è dell’anima, della psiche e che nasce dalla consapevolezza di un nefas impossibile da rifiutare. Fedra accetta il suo destino ineluttabile e l’eredità di amori nefandi che provengono dal ghenos.
Attraverso un’indagine in fieri, Seneca presenta la sua eroina al pubblico, dando vita a una creatura dai risvolti profondamente e tragicamente umani, dotata di capacità introspettive, di dimensione spirituale e psicologica che la avvicinano a ‘quell’ossimoro di ambiguità e di disarmonia che, per la sua natura complicata, è la donna’ [7].
All’interno della tragedia, il rapporto di opposizione e specularità continua nel dialogo con la nutrice, che affianca la protagonista sulla scena.
Le due donne rappresentano i poli antitetici della tragedia, eppure sono l’una specchio dell’altra, in una inversione di sentimenti e atteggiamenti, che è ben visibile dal confronto con l’Ippolito euripideo, dove l’umile condizione ispira sentimenti di bassa leva e, di contro, l’alta ne ispira di nobili e puri.
In Seneca, invece, leggiamo di una nutrice di umili natali ma che è lo specchio di quella saggezza [8] e morigeratezza che l’età avanzata consegue come premio (v. 139); e di Fedra, invece, che è donna di alto rango ed è in preda al furor, totalmente avvolta nel suo stato di follia. La nutrice, che è a conoscenza del segreto di Fedra, tenta in un discorso dai toni fortemente suasori e strutturato secondo lo schema del logos apotreptikos, di allontanare Fedra dal suo furor, facendo leva sulla sua regalità derivante dalla discendenza divina e dal matrimonio con Teseo (vv. 129ss.). Il verso è reso ancora più incisivo dall’ossimoro nefanda/casto, e rende bene l’ardere d’amore quel flammas, che riprende appieno il linguaggio erotico dell’elegia.
La nutrice spinge la regina a non alimentare la sua passione, ad anteporre un freno, rammentandole che certi mali bisogna curarli in tempo; il sottovalutarli o il crogiolarsi in essi non porta a nulla di buono, anzi peggiora la condizione di chi tardi s’appresta ad agire. Nutrix docet Phaedram: la sententia richiama uno dei principi dello stoicismo senecano, in cui la “voluntas occupa una posizione preminente, in quanto capace di frenare gli impulsi e orientare i sentimenti” [9]. A sua volta, la voluntas ricorre al pudor, l’ultimo baluardo per reagire alla passione [10], cioè per conoscere la misura del peccare e avere la consapevolezza dell’entità della colpa [11] (vv. 140s.).
Il ‘nefasto’ sentimento di Fedra non farebbe altro che ‘aggravare’ la casa materna di nuove e dolorose mostruosità (vv. 140 s.). Inoltre, la regina non troverebbe attenuanti a tale comportamento né giustificazioni nel nefas materno, perchè se la madre fu colpita da un destino crudele, il suo sarebbe da imputare solo a se stessa, alla sua debole volontà di opporsi al furor. Quindi un nefas voluto è peggiore di uno mostruoso (vv. 143 s.). La sentenza è resa più incisiva dal chiasmo (abba) e dall’opposizione fato/moribus al centro del verso.

Note:

[5]     Cfr. De Meo, in L. Annei Senecae Phaedra, Bologna 1990, p. 98 s.

[6]     Cfr. Biondi, in Seneca, Medea/Fedra, Premessa al testo, introduzione e note di G. B., traduzione di A. Traina, Milano, 1989, p. 46.

[7]     Fusini, cit., p.16.

[8]    La nutrice nella tragedia di Seneca è la mens bona, ovvero la depositaria del pensiero senecano.

[9]     De Meo, Seneca, cit., p. 105 s.

[10]   De Meo, Seneca, cit., p. 106.

[11]    Ibid.