Phaedra in speculo: un personaggio senecano – Parte 3/5

A cura di Rosalba Pipitone

Parte 1
Parte 2

Guerin Pierre Narcisse - Ippolito e Fedra
Guerin Pierre Narcisse, Fedra e Ippolito

Non mancano in tutta la rhesis della nutrice le sentenze che, situate in posizione strategica, rappresentano i punti fermi nel conseguimento di una giusta morale in cui forti strutture chiasistiche e riprese lessicali, quali per esempio tutus, securum, riprendono il linguaggio della predicazione di Seneca. Il saggio è securus, tutus, grazie all’impertubabilità dell’apatheia. Le emozioni, che sono viste come vere e proprie malattie, non travolgono né turbano l’animus del sapiens [12].
Non ottenendo risposta da Fedra, la nutrice svolge appieno il ruolo per cui è stata chiamata: essere l’alter ego di Fedra. È qui, infatti, che avviene il confronto tra le due donne: l’una, sdoppiandosi, interloquisce con il suo io; due immagini diverse, quindi, nella forma e nel contenuto ma appartenenti a una stessa entità. La nutrice non è altro che la voce e il volto della coscienza della sua alumna. Ella va oltre: tocca le corde dell’animo di Fedra che sono assopite e ingannate dal furor, le scuote, perchè le loro giuste vibrazioni giungano alle orecchie della regina. Le parole commosse e supplici della vecchia sembrano ridestare Fedra dal suo stato, che risponde Paremus, altrix (v. 251). In realtà, è solo un momento in cui Fedra ritrova se stessa, comprende la presenza del pudor, si rende conto che non ha la forza per difenderlo dalla soffocante passione e vede come unica soluzione di salvezza la morte: Morte praevertam nefas (v. 254).
A questo punto, è doveroso sottolineare l’attuazione di un duplice ‘rivolgimento’ nell’evoluzione psicologica delle due donne. La regina, che nel monologo è specchio di una negatività dovuta al tubinio degli adfectus che sconvolgono e sovvertono ogni suo giusto equilibrio, approda ai saggi della Stoa [13] scegliendo la soluzione purificatrice della morte. Allo stesso tempo, la nutrice, che incarna la mens bona, tralascia quelli che erano i sacri principi dell’etica stoica, e cede all’affetto che nutre verso la sua alumna, rendendosi complice nella seduzione di Ippolito. Il cuore sovrasta la mente, l’affetto la saggezza; il tutto è riflesso della incongruente realtà della vita [14].
Termina il dialogo, Fedra si ritira nelle sue stanze e dalle parole della nutrix veniamo a conoscenza dei signa [15], del furor, che traspaiono dalle alterazioni del volto, dal passo incerto, dall’atteggiamento incostante e mutevole verso ogni desiderio.
Giunge Ippolito e la nutrice si appresta a convincerlo a cedere alle lusinghe dell’amore.
Fedra, lasciata nelle sue stanze, sentendo le dure parole del giovane sdegnato e sconvolto, impaziente raggiunge la scena e Ippolito per denunziare il suo amore. Siamo nel cuore della tragedia, all’apice del dramma: la confessione a Ippolito. Fedra, lanciatasi nel suo proposito, si trova a un passo dalla verità, ma “avviene in lei un naturale rivolgimento” [16]. La realtà della sua azione, la mostruosità del suo desiderio, le si pongono davanti. Si squarcia quel velo torbido avvolgente la sua ratio [17]; vorrebbe indietreggiare, si arresta, le parole non l’aiutano e quindi esorta se stessa e si incoraggia; vorrebbe che il figliastro intendesse ma “l’ostinata, ingenua, quasi irritante incomprensione di Ippolito la obbliga a bruciare i ponti dietro di sé” [18]. Per Fedra, oramai non è più tempo per provare vergogna; nel momento in cui amavimus nefanda, il suo delitto si è già compiuto. Il pudore è messo fuori campo ma nonostante tutto, ella cerca conforto e sostegno nella speranza di un buon esito che possa colmare e nascondere il nefas.

Note:

[12]     Nicola Abbagnano, Storia della filosofia. La filosofia antica, Milano 1996, p. 218.

[13]     Cfr. Abbagnano, cit., p. 216.

[14]     Giomini, Saggio, cit., p. 63.

[15]     Giampiera Raina, Presenza di un sapere fisiognomico nelle tragedie di Seneca, In Atgti del V Seminario di studi sulla tragedia romana, Palermo 1995, p. 127.

[16]     Paratore, Sulla <> di Seneca, <>, 1952, p. 199-234.

[17]     Cfr. Albini, cit., p. 136: “La scena più straordinaria è la confessione d’amore diretta, perchè in essa la passione diventa (o cerca di diventare) razionalità”.

[18]     Ibid.