Phaedra in speculo: un personaggio senecano – Parte 4/5

A cura di Rosalba Pipitone

Parte 1

Parte 2
Parte 3

 Joseph-Désiré Court, La mort d’Hippolyte, 1828

Ecco la virago, l’eroina decisa quanto mai a portare a termine il suo intento; supera antinomia bene/male identificando ciò che è bene con ciò che è egoisticamente utile, e la nefandezza con il bene, se conduce al successo. Invita gli Dei a essere testimoni della nefandezza che sta per commettere, in quanto ciò che lei vuole non lo vuole realmente: Vos testor omnes, caelites, hoc quod volo / [me nolle]; ma il furor è più forte di lei e la schiaccia. Nella sua supplica agli Dei, per l’ultima volta, con alito di speranza, concede a sé e al cielo la possibilità che tutto ciò non avvenga, che qualcosa impedisca un così grande delitto: lei, pur essendo artefice di ciò, in realtà ne è vittima quanto Ippolito perchè hoc quod vult / [illa non vult].
È questo il punto cruciale della tragedia, il momento più tragico, in cui Fedra rivela tutta la sua drammatica vis umana. Il conflitto, il dissidio interiore che in lei si scatena tra la ratio e la passione, lacera la voluntas; quella voluntas che è ancella della ragione e che qui diventa protagonista di una doppia tragedia: la voluntas della passione precipita verso il crimen e la confessione (quod volo); e la voluntas della ratio (me molle) riscatta Fedra della propria colpa a Teseo.
Si sviluppa così un gioco intricato di parole dette e non dette, di silenzi e di parole, di ambiguità e di incomprensione. In Fedra si genera un’illusione letale. La regina, infatti, credendo che le parole di Ippolito si riferiscano alla sua preghiera di accoglierla in quanto compagna, nella fallace speranza dell’inganno, si incoraggia a confessare. Il giovane, insofferente per tanta reticenza, è ignaro di cosa lo aspetti ma il velo di ingenuità si dissolve lentamente e nella sua esortazione a parlare, in cui è ravvisabile un’intuizione ravvisaga, con accenti vigili chiederà a Fedra: Amore nempe Thesei casto furis?
A questo punto Fedra confessa il suo segreto a Ippolito, trovando appiglio e ispirazione nella bellezza del giovane, rievocando l’immagine splendente di un giovane Teseo, riflesso di una bellezza divina, tuave Phoebes vultus aut Phoebi [19] mei, / tuusque potius [20]. Fedra è altrettanto ignara della reazione quanto mai ferina del giovane, che non tarda ad arrivare. Questi, sdrgnato e inorridito, invoca, nella speranza di una immediata reazione, il padre degli Dei, e delirante per l’orrore fugge verso luoghi incontaminati: i boschi.
Fedra e Ippolito: due figure che Seneca ha concepito come moralmente antitetiche l’una all’altra, destinate, quindi, a scontrarsi. Nonostante le loro divsità e le loro vite condotte in modo fortemente dissimile, la presenza di un destino ineluttabile li riallaccia e li riconduce a un unico legame: il silvae.
Entrambi riprendono e subiscono nella loro vita il ghenos materno: Fedra quello di Pasifae, Ippolito quello di Antiope. L’antitesi tra i due si focalizza sulla diversità che contraddistingue la personalità dell’una (femminile e passionale) e dell’altro (maschile e selvaggia) ma entrambe intrappolate e in preda a un furor incontenibile.
Ippolito trascorre la sua esistenza lontano dalla società di cui fa parte, lontano dalla città, dalla vita comune, da quella regale e soprattutto lontana dalla vita di un uomo. Dedito alla caccia, si crogiola in una spietata misoginia, che riprende appieno le caratteristiche materne, perso in un furor di eroe negato. Disprezza Fedra perchè simbolo di lussuria e amore sensuale, che egli aborre e scaccia come peste mortale, frutto della lascivia della città che si contrappone all’eavsione della foresta. Ippolito è “l’erore del rifiuto”, della fuga, invece Fedra è l’eroina che accetta e sopporta, pur sentendone il peso, il destino che le è stato scritto, affrontandolo con la forza della virago che è in lei.
Fedra e Ippolito sono due realtà contrapposte, è vero, ma speculari allo stesso tempo, perchè vivono in modo differente realtà simili, cioè due modi di vivere uno stesso destino, due visioni di un’unica realtà.
Non a caso si ritiene che in quel silvae sia racchiuso un ancestrale destino che riguarda entrambi, in cui volenti o nolenti si ritrovano e che devono affrontare.

Note:

[19]     Il gioco di nomi che Fedra imbastisce durante la rivelazione (Febe ovvero Diana, venerata da Ippolito e Febo ovvero Apollo, padre di Pasifae) sottolinea il legame divino che intercorre tra i due, e insinua un’attenuante all’affinità di sentimenti che tra essi potrebbe esserci.

[20]     Quel potius è spia quanto mai rivelatrice del nome dell’uomo amato da Fedra: piuttosto il tuo volto, Ippolito.