Qual è l’amore autentico? [Proust e il conflitto tra io-e-realtà]

a cura di Lisa Orlando

Qual è l’amore autentico?
[Proust e il conflitto tra io-e-realtà]

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Chi più di Marcel Proust ha sbattuto come un pipistrello contro un muro cieco? chi più di lui ha avvertito il dolente conflitto tra la smania di carpire (in continua interrogazione) la realtà oggettiva e il terrore di una deriva soggettivistica che convertisse quella stessa realtà in una farnètica immaginazione.

Intorno all’opposizione io e realtà, Proust non s’è mai stancato di scrivere dando vita al suo colossale romanzo “À la recherche du temps perdu“ luogo strategico, concavità approfondita o sterminato campo di battaglia? dove sollecitare a interrogare la realtà e liberarla dalla “macchia” dell’io, affinché essa potesse concedere (nell’attimo prima della sua sparizione?) la sua vera essenza, oltre che una traccia della sua esistenza.

Gli amori impossibili, dove nulla finisce per trasformarsi in un semplice e puro calcolabile (per tal motivo passionali? mortali?), costituiscono il luogo di scontro tra queste due percezioni, che Proust spinge fino all’estremo soprattutto nel dramma amoroso tra Charles Swann e Odette de Crécy (contenuto nella seconda parte del primo volume “Un amour de Swann”).

Le indagini, le “scritture” sulle donne amate sono per Proust altrettanti ritorni sul tema della realtà in sé, la quale resta pur sempre inafferrabile, eccedente rispetto il compito che lo sguardo si assegna. In una crudele tribolazione, Proust non hai mai smesso di porsi tali interrogativi: cos’è l’amore per una persona?, ha esistenza reale?, è, invece, solo proiezione concreta del proprio sè?, chi è (davvero) la persona che amiamo?

Chi era Albertine, ne “La Prisonnière”?

A un certo punto, Proust scrive: “Riteniamo innocente il nostro desiderare, eppure atroce che l’altro desideri”: in una logica in cui l’altro è (realisticamente) oscuro e inafferrabile, la dinamica del suo desiderio diventa – per noi – elemento minacciante: essendo esattamente il desiderio il fattore che destina l’umano all’imprevedibilità, e che lo fa erompere da ogni previsione, da ogni definizione (da ogni nostra illusoria volontà di possesso!).

In quell’esperienza che è la gelosia, Proust ha avvertito che il desiderio è fonte dell’altrui libertà. Un possesso che tenti di annientare la libertà dell’altro è infattibile: pur rendendola prigioniera, Albertine restava in uno spazio d’inesorabile inafferrabilità. “Solo quando lei dormiva”, “riassunta nel suo corpo”, e “perdendo coscienza”, Marcel aveva “l’impressione di possederla per intera”, come se la sua vita [gli] fosse sottomessa”.

Proust era ben consapevole che la “gelosia è, spesso, un’inquieta necessità di tirannia sulle cose dell’amore” così come ogni atto che a s s o l u t a m e n t e pretende di cogliere l’altrui realtà, annientando quella tangibile dimensione di notte e di ombra nel quale l’altro resta assente, inconoscibile, inattingibile.

Nondimeno, qual è il luogo in cui potrebbe aprirsi la possibilità di un incontro autentico con l’altro, per vedere o intravvedere il suo mondo e partecipare alla sua vita?

(Certamente) là dove non ci si lascia contaminare dal bisogno di dispotismo e dove s’accetta la realistica condizione di presenza-e-assenza di colui/colei che si ama. Tuttavia, Proust afferma che: “Mai può esserci pace nell’amore poiché quel che si è conquistato non è che un nuovo punto di partenza per desiderare altro.

E davvero così? Possiamo immaginare di sì, eppure quel gioco al rilancio potenzialmente infinito del desiderio potrebbe avere momenti di tregua, là, dove vi sarebbe un aspetto di reciproco abbandono e accoglimento. Non un ritrarsi di sentimenti, dunque, ma un’esposizione di sé.

Pertanto, contrariamente a quanto pensi Proust, sono gli amori possibili quelli più autentici? – nonostante vera sia l’affermazione proustiana e sulla quale tutti possiamo essere concordi:
“Si ama solo ciò che non si possiede per intero”.