Quel maledetto Vronskij di Claudio Piersanti (Rizzoli, pp. 234)

Non c’è scampo, Vrònskij è sempre presente, non manca mai di macerare, con fatuità raffinata, ogni coppia e a imporle la dolente attesa del momento disperato, la paura della frattura inevitabile, la desolazione dell’abbandono traumatico che incalza e anticipa una fine che non unisce.

La tragedia di Anna Karenina è la sineddoche di quella collettiva proprio perché c’è lui, il maledetto Vrònskij, personificazione della corrosività del sapersi mortali, di quella corrosività che spinge alla smania del cambiamento drastico, alle decisioni conseguenti di stravolgere la propria vita e di realizzare, se si ha fortuna, i sogni coltivati da anni che, però, in quanto sogni, saranno prima o poi interrotti dal risveglio. Un risveglio, tuttavia, non traumatico per chi sa che Vrònskij esiste, ed esisterà per sempre, per tutti.

D’altro canto, che cos’altro è la felicità se non «un castello di carte, bellissimo ma instabile e provvisorio» (p. 195) osservato da Vrònskij con la superficialità di una bambino in procinto di demolirlo con un soffio.

Esiste un montaliano varco? Forse sì, ma tragicamente momentaneo. Meglio di nulla, forse. Un varco che, visto che si parlava di coppie, potrebbe indentificarsi nella famiglia. La famiglia considerata, al di là di ogni verosimiglianza, come un nido di affetti esclusivi e sicuri – sebbene sia di per sé «un covo di preoccupazioni» (p. 83) – nel quale da due si diventa uno, a volte perfino da tre o quattro si forma un’unità in cui perfino un cane può fondersi. Un’unità appagante che punterebbe all’immutabilità se non fosse per l’appressamento onnipresente di quel maledetto di Vrònskij con la sua gratuita crudeltà disgregativa.

«La sua famiglia era svanita nel nulla, non esisteva più. La famiglia è una cosa transitoria, come il lavoro. Del resto come l’esistenza stessa. Tutto è transitorio ma quando lo vivi ogni momento sembra eterno» (p. 82).

Claudio Piersanti segue con discrezione, senza nessun facile sentimentalismo, per così dire, due morti viventi. O meglio, un marito e una moglie che, in virtù della terribile malattia di uno dei due, hanno acquistato la coscienza di essere dei morti viventi, senza sgomento, ma con malinconica rassegnazione. E li segue sia nei momenti quotidiani che negli eventi estremi apparentemente inspiegabili, sia negli istanti di intensa distensione che negli avvenimenti in cui è insito il non più possibile.

Lo stile è elegante ma misurato. D’altronde, non avrebbe potuto essere diversamente dato che Vrònskij incombe sempre incupendo ogni forma di vitalità. Sarebbe stato stridente, fuori luogo, ogni eccesso espressionistico, qualsiasi distendersi in lunghi periodi involuti se è vero che Vrònskij induce a una riflessione più accorata che convulsa o cavillosa, rimanendo pur sempre maledetto.