I giorni sono sempre più brevi

a cura di Paolo Marati

Non importa se la vita abbia un senso o meno. Importa non perdersi, non smarrire le coordinate che collegano il passato con il presente tanto da rivelarsi stabili previsioni di una continuità futura. Ma purtroppo lo smarrimento appare fatidico. Risulta inattuabile non angosciarsi di fronte alle laceranti constatazioni più ovvie. Si configura un’illusione desolata ostinarsi a riflettere pacatamente sullo spietato scorrere meccanico della sabbia in una concreta clessidra mentale. Tanto più che non esiste «un libro delle anime» di tutti gli esseri non più viventi, ma, se esistesse, «sarebbe la visione completa dell’interminabile catastrofe» (p. 210)

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Come reagire a una delle poche certezze non distrutte? Come orientarsi, senza essere avvinti totalmente dallo sgomento, in una cupa realtà sordida ma labirintica? Alberto Modei, il protagonista dei Giorni sono sempre più brevi di Igor Patruno, è uno scrittore che osserva, un uomo che cammina, il quale, al pari di alcuni personaggi schnitzleriani, si definisce tramite gli incontri casuali che evocano inquietanti atmosfere sinistre o laide. Nell’attimo della messa a fuoco, Modei  vorrebbe salvaguardare la propria coscienza, ma la sua è una fatica sisifica, perché, sconfitto, finisce per sprofondare in una dimensione che fonde con impaccio il passato con il presente, che rivela l’inesistenza di una solida linea di demarcazione tra il ricordo dei defunti e il presente dei vivi-defunti. Modei cerca caparbiamente di difendere la propria integrità di scrittore umile, anacoreta cocciuto tra il caos della tecnocrazia. Ma la sua sobrietà si degrada, per forza di cose, in allucinazione. E di allucinazioni, talora diafane talora nitide, si riveste il suo porgersi solitario in un mondo ripugnante, popolato da filosofi derelitti e da arroganti palazzinari, da puttanieri sbruffoni e da sconosciuti pontificanti. Ma è proprio grazie all’incontro-scontro con la parola altrui che Modei riesce a instaurare un dialogo con sé stesso, il sé stesso in rassegnato mutamento, in attesa di una rigenerazione miracolosa ma fatua perché avvertita come ineluttabilmente ingannevole: la romanzesca àncora dell’amore totalizzante. Sennonché le varie donne che il personaggio incontra – o che ha contemplato fuggevolmente da giovane – si trasfigurano, sì, in possibili occasioni, in varchi non ben definiti per tentare un’evasione, ma tale evasione non cela il rimpianto della velleità, dell’ipotesi letteraria concreta quanto un topos anacronistico.

Con uno stile veloce e un lessico ricercato, Patruno descrive egregiamente l’esperienza di un uomo sfinito, che si aggira nella Roma aggressiva e tetra degli anni Venti, le cui vie grigie, dall’illuminazione pressoché assente, sono sferzate da venti furiosi – limpido specchio della tormenta dell’animo – e dalla pioggia molesta, incessante – del tutto interiorizzata, riflesso scialbo di un io privo di una qualsiasi prospettiva luminosa, di un qualsiasi bagliore trascendente.

 

–> I giorni sono sempre più brevi di Igor Patruno (Lupetti, pp. 217)