Risemantizzare il linguaggio e farlo nostro

Conversazione con Lucia Brandoli sulla sua poesia
a cura di Pier Angelo Cantù

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Nella più semplice delle definizioni, l’alfabetismo è la capacità di una persona di “leggere e scrivere, capendolo, un brano semplice in rapporto con la sua vita giornaliera”. Questa capacità non è così scontata, nemmeno tra le fasce di popolazione che si penserebbero alfabetizzate.

Nella poesia, la faccenda si complica ulteriormente perché, per dirla con Allen Grossman, c’è un conflitto irrisolvibile fra il desiderio del poeta e “la resistenza alla creazione dell’alternativa insita nei materiali di cui è composto qualunque mondo” (cit. in Odiare la poesia, Ben Lerner, Sellerio). Ogni giorno vediamo come il pessimo livello di alfabetismo che condiziona la vita politica, sociale e culturale, finisca per influenzare la stragrande maggioranza della produzione e della fruizione di poesia e letteratura.

Le logiche di diffusione sono in mano alle case editrici e queste appaiono, diciamo, ormai distratte circa i nobili propositi descritti sopra. Fortunatamente, a volte anche un piccolo libro di buona poesia cammina con le proprie gambe e arriva a fasce più ampie di lettori senza l’intervento delle acrobazie del marketing pensato per la vendita. È ciò che è capitato a Louise Glück, semisconosciuta vincitrice del Nobel per la letteratura 2020 e, più in piccolo, ad Alessandra Carnaroli, recentemente pubblicata nella “bianca” di Einaudi.

Mi sono imbattuto casualmente in alcune poesie del primo libro di Lucia Brandoli, Anello di prova (Raffaelli Editore, 2016), sentendomi immediatamente in risonanza con il contenuto e lo stile. Mi sono inoltrato poi nella sua produzione successiva faticando a trovare la medesima risonanza. Come ha rilevato Jennifer Francesca Di Lorenzo Sciuchetti – poeta, cardiochirurga, geriatra e psicoterapeuta cognitiva – “Brandoli ha la capacità di raccontarsi attraverso l’immediatezza e l’assenza di metafore eterodirette. Questo non significa che utilizzi un linguaggio semplice, anzi. Credo che la capacità di raggiungere l’ambizioso traguardo di ri-conoscersi, costruirsi e raccontarsi attraverso le parole senza usare i comodi, talvolta necessari (dal punto di vista di una autoimmedesimazione catartica) sotterfugi della metafora, sia il limpido esempio di una mente lucida, chirurgica, che tanto ha operato sul proprio tessuto fino a riconoscerne ogni difetto di fabbricazione”.

Brisbane

Mi hai detto che gli uomini ridono in quattro,
che gli uomini ridono pari,
che gli uomini, tutti, sono come i palloni –
e in effetti hai ragione – da basket e le donne
come quelli da calcio, le donne
che se ci fai caso, infatti, ridono in tre,
senza i piedi per terra, senza fiato, scartano,
ma in effetti, in questi giorni mi sento
come una pallina da tennis su un tavolo
da calcio balilla, gialla, per niente a suo agio,
che al Monk non ci vuol mai giocare
nessuno, per paura di perdere o di rovinare
lo status che ha fatto tanta fatica a disegnarsi
nella giacca di Burberry, che a quel punto ti chiedi:
ma cosa ci farà mai con la tessera Arci?
Roma oggi, Brisbane domani.
Otto ore prima, otto ore dopo
contemporaneamente, cosa vuoi che sia
due mesi non sono l’eternità, neanche un anno.
È inverno anche lì, ma solo di notte,
mentre pisci in pigiama alle tre
guardando la cintura di Orione.

Lido di Savio, agosto 2015

Anello di prova è una silloge d’esordio dalla voce ferma e rapida; le immagini evocano due diverse dimensioni, quella fisica e quella spirituale. Il lettore segue un movimento imprevedibile e spiazzante, con molti salti e ampie narrazioni nel silenzio. È qui che ha inizio la mia conversazione con l’autrice.

Com’è stato il processo compositivo di quel libro?

Anello di prova è stato scritto in circa dieci anni. Il primo nucleo di versi risale al 2006, quando ero al liceo (scientifico). Negli anni successivi non sapevo dirmi se quei versi avessero un valore, se fossero poesia, ma li portavo sempre con me, per città e traslochi, e ogni tanto ci lavoravo; l’idea era di farli leggere a un mio ex, a cui però non li feci mai leggere perché mi sentivo stupida. Finalmente, credo fosse il 2009, trovai il coraggio di leggerne alcuni a Robert Bisha, musicista dal talento pazzesco che avevo conosciuto al Jazz Club di Ferrara. Forse fu lui a insistere abbastanza per convincermi. All’epoca avevo il terrore di mostrarmi mentre interpretavo qualcosa: dopo il conservatorio ho attraversato un periodo di brutta depressione e il trauma continuava ad affiorare, era come se mi spezzassi appena emettevo un suono. Passarono altri anni in cui ho imparato diverse lingue – portoghese, spagnolo, francese, tedesco – che si sono intersecate così tanto con l’inflessione originaria della mia parlata da rendendola irriconoscibile, un neutro composto da tante specificità. Lo sottolineo perché credo che questo contenere suoni sia confluito in maniera importante in Anello di prova. A un certo punto il libro ha preso forma, ma non sapevo ancora se valesse qualcosa. Non conoscevo altri poeti, ero giovane e avevo frequentato ambienti accademici molto lontani dalle lettere (musica, architettura, fotografia, design, cinema), mi vergognavo ancora a dire che scrivevo poesie. Più il tempo passava più diventavo consapevole del fatto che stavo creando qualcosa con cognizione di causa. Contattai allora Alessandro Fo, che con enorme gentilezza lesse il libro con attenzione, ne riconobbe un valore e mi diede alcuni preziosi consigli. Poi, finì nelle mani di Isabella Leardini e del Premio Rimini mentre ero in India, piacque ad Alberto Bertoni e a Marco Sonzogni, che scrisse l’introduzione, e poi a Walter Raffaelli che lo pubblicò.

In estate

L’orizzonte era acuto
di antenne spezzate, e televisioni e di cavi
e il cielo, incurante, non era mai stato più inutile.
Le statue appese, con le membra fasciate,
ci si sporgevano sopra
e io le guardavo stremata.
Hai stretto un momento
il cappio, l’hai stretto
di scelte all’altezza
degli ilei e hai pianto
un bottone, appoggiato sul collo, perduto,
quello che avrei rimpianto.
Adesso che hai perso
chissà quale credo, chissà che distanza, quando
ti volti dicendomi – mi dispiace.
Ti dispiace: oscilliamo diversi
al vento.

Vicenza, 2013

Il senso di vertigine è compensato dalla fluidità ritmica. Sei d’accordo?

Sì. In quegli anni vivevo come se avessi una pistola puntata alla tempia, come se potessi cadere nel nulla da un momento all’altro e allora non sapevo cosa mi sarebbe successo. Guardavo il modo dall’orlo del baratro. Sicuramente in quel libro – oltre a una polifonia mentale di lingue che poi influenzano quella italiana – c’è tantissima della musica che ascoltavo, suonavo e frequentavo all’epoca e la lezione di maestri come Claudio Abbado, Nikolaus Harnoncourt, Sir John Eliot Gardiner, Daniel Harding, Martha Argerich, Maria João Pires, Radu Lupu, Stefano Mollo, Lorenza Borrani, Lorenzo Coppola, Ottavio Dantone, Stefano Montanari. Essendo una violinista mediocre ho trasposto la lezione che mi aveva dato la musica alla parola, che mi sentivo essere in grado di maneggiare con più facilità.

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Lavori come editor, copywriter, scrivi articoli e racconti; quando capita l’occasione traduci e revisioni. C’è molto uso della parola e della mente nella tua vita. In parallelo sei insegnante di yoga, quindi c’è ampio spazio per il silenzio, l’ascolto del corpo e la cura dei movimenti…

Anche nella parola c’è sempre – deve esserci – spazio per il silenzio. Per me la parola è silenzio – il che mi rendo conto possa sembrare un controsenso. Claudio Abbado citava spesso una frase di Mozart durante le prove, ovvero che la musica è ciò che sta fra le note. Mi rendo conto ora di quanto questa suggestione abbia influito sulla mia percezione del mondo e sulla mia scrittura, soprattutto quella poetica. D’altronde, anche la composizione architettonica è abituata a ragionare in termini di pieno e vuoto, spazio e materia, ciò che vediamo è il calco di ciò che non vediamo, una traccia. Allo stesso modo mente e corpo non sono antagonisti, né tantomeno dimensioni separate, anche se la nostra cultura ci spinge a considerarle in questa maniera. La mente è una manifestazione fisiologica, legata al corpo – lo dicevano gli yogi duemila anni fa e lo dimostrano oggi le neuroscienze – così il corpo è manifestazione della mente – pensiamo ai sintomi psicosomatici, alle malattie autoimmuni, o alle risposte endocrine che riverberano poi a livello muscolare e posturale: è un circolo chiuso, per questo è fondamentale mescolare le due dimensioni. Forse è per questo che cerco di portare il corpo in un’attività che sembra prettamente intellettuale, perché so che quella è una credenza ingannevole. Il corpo non va mai dimenticato, altrimenti se ne pagano le conseguenze.

Nelle poesie di Anello di prova traspare una certa incontenibilità. Sembra che non ci sia spazio per trattenere tutte le esperienze e così vengono catalogate, quasi per creare un archivio esterno, eventualmente da consultare. Ci sono date e luoghi in calce. Come riesci a contenere tutto nello spazio breve di una poesia?

Il concetto della traccia è fondamentale. Nel segno, infatti, è contenuto anche ciò che non si vede. Il confine tra me e il mondo è sempre stato molto labile, nel bene e nel male. Faccio fatica a percepirmi e a percepire attraverso la dicotomia dentro-fuori. Credo che questo senso di incontenibilità venga da questa sorta di labilità del perimetro esistenziale. Per me c’è un continuo mescolarsi alle cose, sfacciato e ingenuo, potenzialmente rischioso e anche doloroso, per questo quando mi ritiro finisco per scomparire, dissociarmi, non ho vie di mezzo. Eppure, voglio vivere come se mi scorticassero, sprofondare nell’altro. Il resto mi annoia, mi frustra, mi delude. Vivendo in questo modo a volte è necessario il completo isolamento, il bosco, il buio. Se ti mischi cambi, ogni cosa ti lascia la sua impronta, e si ritorna al segno.

Il catalogo è personale, serviva a darmi dei punti cardinali esistenziali, per evitare la disgregazione, la geografia, la mappa spazio-temporale mi aiutava a tenere insieme esperienze nate e cresciute in un arco temporale molto ampio. Come se un momento, attraverso la forma della parola che lo contiene, si potesse dilatare e trasportare nel corso degli anni, con la stessa intensità. Mi è stato detto spesso che nei miei racconti c’era la quantità di materiale per degli interi romanzi, a volte succede anche nelle poesie: è una cosa che alcuni criticano, richiede uno sforzo. La complessità però non è mai volontariamente artefatta. La vita è complicata, stratificata, misteriosa, non voglio semplificarla ma attraversarla e se sono riuscita a fare bene quello che mi propongo di fare cambio forma grazie a questo e magari faccio cambiare forma anche agli altri che desiderano passarci attraverso senza paura di sciuparsi, perdersi o riscoprirsi altri nell’altro. A volte poi ci sono cose semplici e allora mi impegno a dirle con semplicità, senza incrostazioni linguistiche che in vece di svelare sembrano impegnarsi ad occultare a tutti i costi.

C’è anche un uso audace di forme di linguaggio miste (lingue straniere o dialetti) e mi pare di aver colto riferimenti stilistici che rimandano ad autori classici (Montale, Eliot, Heaney…). Trovi che siano un limite o un’opportunità nella ricerca di un dialogo con chi ti legge?

Tra autore e lettore ci deve essere sempre un patto, quando si instaura tutto diventa un’occasione. Quando si instaura una complicità ci si fida, si segue l’altro in territori sconosciuti. Spesso leggo cose che faccio fatica a capire, o in lingue che non padroneggio del tutto, proprio come esercizio di abbandono e attenzione. Mi rendo conto che è uno sforzo che non si può imporre dall’alto, ma ben venga se qualche testo ce lo suggerisce. La poesia serve anche a scavare nell’inconscio, può essere formula magica, preghiera. In India prima delle pratiche yoga, ma non solo, si ripete un mantra. Non viene fornito un testo, a volte le parole non sono chiare, men che meno per gli stranieri. Ti insegnano ad ascoltarlo e a ripeterlo, anche sbagliato, senza timore, perché il punto è un altro. Ogni volta ascolti e ripeti, ascolti e ripeti, ascolti e ripeti e alla fine lo sai. La ripetizione è il tratto fondamentale del rito e i riti sono “processi dell’incarnazione, allestimenti corporei” come scrive Byung Chul-Han. Magari per dieci anni ripeterai sbagliata una sola parola, senza mai farci caso. Sbagliamo ciò che i nostri sensi non intercettano (come ha dimostrato Alfred Tomatis): se il tuo orecchio non è in grado di riconoscere la diversità di due suoni non ti accorgerai della loro differenza e li riprodurrai sbagliati; questo inganno vale per tutti i sensi, e anche per la mente linguistica. Quando, a forza di affinare il senso, ti accorgi all’improvviso che hai sempre detto una parola nel modo sbagliato, o visto un simbolo sempre in un certo modo, il tuo corpo è cambiato e così la tua percezione e poi la tua vita a partire da quel momento.

In architettura, ma in generale in tutte le discipline artigianali, viene insegnato attraverso l’imitazione. Imparare a copiare è fondamentale, si impara copiando. Scrivendo non ho mai avuto l’intenzione esplicita di ispirarmi o imitare, di solito succede involontariamente, l’inconscio riporta l’eco di voci che ci hanno resi noi stessi.

Devo moltissimo a tutti e tre questi nomi che hai fatto; quindi, non mi stupisce che tu abbia percepito una corrispondenza. Secondo me le citazioni, volontarie o involontarie che siano (in realtà credo di aver citato volontariamente solo Bernhard e Valery), devono poter essere lette e accolte a prescindere, non mi piace usare ciò che so per pormi al di sopra di chi non lo conosce, e non mi interessa nemmeno porre degli enigmi o degli indovinelli sperando che qualcuno li risolva. Mi piace però lasciare tracce per chi ha voglia di seguirle. Chi ha poi le competenze per scorgere anche lo strato dei rimandi e delle eredità avrà uno strumento in più per la sua lettura.

L’uso delle lingue straniere fa sì che l’identità si declini in altre forme, indossi altri panni, altri suoni, anche questo è un esercizio utile, perché dà diverse possibilità e al tempo stesso ci libera. Mi sono accorta che alcune esperienze o emozioni parlano inconsciamente in una certa lingua, affiorano in un idioma piuttosto che in un altro; quindi, esploro questo fenomeno anche nella scrittura. Siamo composti da voci. Cerco di dare sempre appigli di senso nel caso il lettore non conosca quella lingua o quella parola specifica, perché non mi piace che si crei uno scarto. Al tempo stesso, nel caso non la conosca potrà immaginarne il suono, intuirne il possibile significato, unire i puntini nel modo che preferisce.

Attesa

Ti abbiamo tirata giù,
dallo spazio
con un piccolo amo
d’acciaio
e quello che imparo
è che non esistevi.
Tu non esistevi.
Noi non siamo esistiti.
Noi non esistevamo.
Chissà com’eri, com’eravamo.
Chissà chi siamo.
Le nostre mamme l’han fatto per noi.
Una piccola luce, una pancia che batte.
Un lumino nel buio.
In attesa.

L’amore non è un’evidenza

A volte penso, ho avuto fretta,
mi sono presa una cosa
che non era per me.
Eppure è arrivata
e non ho denunciato
l’errore,
ho aperto la porta,
me la sono tenuta.

Foto-di-Francesca-Woodman

Nel secondo libro, Una minima stupenda (Interno Poesia, 2019), il tema della maternità si rivela come un nuovo cantiere che esprime il bisogno di essere ultimato da qualcosa o qualcuno che non sei tu…

Generare un essere umano è al tempo stesso sperimentare l’unità totale e la separazione assoluta. Tornando al discorso sui confini dell’identità: anch’io credo che nessuno sia un’isola, siamo l’impronta che ci dà il mondo. Fin dalla nascita, portiamo nella nostra materia il colpo che ci imprime la sinfisi pubica di nostra madre, la curva cervicale viene da quello, così come i batteri che portiamo sulla pelle (molto più importanti per la nostra fisiologia di quanto si potesse immaginare) sono un’eredità della vagina, crederci volontà separata è assurdo. Io mi ultimo nello scambio con l’altro, non mi posso considerare un’autarchia. Ho una volontà di ascolto, non di affermazione.

Questa seconda raccolta è declinata al femminile (inteso anche in senso junghiano), con richiami spesso provocatori alla necessità di gravitare tutti verso un unico baricentro, quello dell’amore. Qual era il tuo stato d’animo predominante mentre scrivevi queste poesie?

L’amore è stato molto bistrattato. Ancora oggi in poesia ci sono enormi pregiudizi legati a questo tema. Tutti lo hanno trattato, ovvio, ed è difficile farlo in modo originale. Ma allora? Non sono certa che l’originalità sia tutto. Amo la vita, le sensazioni, le emozioni, la rabbia, la passione, il melodramma, le tinte forti, ho sempre amato l’opera lirica, che a tanti fa storcere il naso. Cheever, nei suoi diari, scriveva, rispetto ai dettagli di Bellow “Mi riporta[no] al tentativo di ritrovare una giustificazione per il sentimentalismo, la carnalità e il melodramma del mio, di lavoro”. Credo che ripudiare tutto questo sia un peccato quando ci si può giocare, lasciandosene tingere. Si può godere e soffrire, usare la vita per fare esperienza, sapendo che è tutto effimero. Non voglio escludere niente per via di una forma, io sono e al tempo stesso non sono ciò amo. L’amore di cui parlo è un arrendersi, un lasciare andare ciò in cui ci identifichiamo per tornare al nulla. Questo tipo di amore (chissà se amore è davvero la parola giusta per definirlo) dà la possibilità di spostarsi tra le dimensioni. In occidente questo ha assunto caratteristiche legate a qualità tradizionalmente femminili, ma nella filosofia vedica non le aveva, anzi, ātman e brahman – la coscienza individuale e la collettiva – sono neutri. C’è una certa confusione e pregiudizio al riguardo. Peraltro, il femminile in antichità era multiforme e incarnava anche il principio distruttore, qualcosa di molto diverso da quello che si intende oggi insomma. 

Avvicino la pira in cerca d’ossa,
di qualcosa che possa ritornare
utile, ricomponibile almeno

in terra, nella sagoma di un amore.

*

Il deserto non è spazio d’ornamenti.
La mancanza detta la vita,
traccia bisogni, sospende.
Si raccoglie l’acqua – come si può.

*

L’estraneità non era fuori dai confini dell’origine.
Era in me. Tanto da essere altra anche a me stessa.

 

La tua recente silloge, Convinta di esistere (Ensemble, 2021), segna un deciso scarto stilistico. La parola si fa corpo, carne, spesso barriera e inciampo alla focalizzazione delle immagini. L’io narrante appare e scompare, si mette di traverso. C’è una sensualità discontinua e sfuggente. Confesso che non è stato facile leggere questa silloge pensando alla stessa voce di Anello di prova. Quali sono i tratti di continuità con le tue raccolte precedenti?

Come scrivo nella poesia che ha dato il titolo alla raccolta, nel libro prende forma la consapevolezza di dover essere pronti a rinunciare a ciò che ci ha salvato la vita e dato una forma. Così ho fatto. In Convinta di esistere ho trovato una mia voce più autentica e meno mediata, è una voce primordiale, un linguaggio che non va incontro alle aspettative di chi lo ascolta, è suono, fatto per essere sentito dal corpo. Noi pensiamo con un ritmo e quel ritmo finisce per dare sempre la solita forma ai nostri pensieri e quindi alle nostre percezioni che si fanno parola. La forma è una trappola. Poco prima di iniziare a scrivere Convinta di esistere mi sentivo schiava del mio stesso ritmo. Dato che funzionava bene ed era molto efficace finiva per mettere in fila le parole come in una sorta di automatismo, era come vedere il mondo attraverso il buco della stessa serratura, non era più funzionale come strumento di indagine, non mi permetteva più di dire le cose, svelarmele. L’andare a capo crea delle belle onde e in alcuni casi può enfatizzare o generare significati, ma non sempre è necessario. Convinta di esistere è una poesia più compatta e rarefatta al tempo stesso.

L’idea, così come per il ritmo, è che anche gli occhi – strumenti per antonomasia di visione – se non esercitati a possibilità alternative dopo un po’ si abituino e smettano di vedere. Per questo invito a non mettere a fuoco, ma a scorgere nella nebbia, nel fumo, in condizioni estreme, di fatica, che obbligano ad affinare tutti gli altri sensi al livello della percezione d’elezione della nostra epoca, quello della vista, così come capita nelle situazioni di pericolo, o comunque che esulano dalle attività abituali, che padroneggiamo. A volte per riuscire a scorgere qualcosa bisogna chiudere gli occhi. I sensi sono amici e nemici, non a caso la meditazione e lo yoga lavorano proprio sul loro ritirarsi (pratyahara), perché a volte ci ingannano, diventano un limite, un’illusione.

***

E per sopravvivere
mi son fatta tenace.

Ma tu chiedi di cedere,
di rinunciare,

allentare la presa,
sciogliere l’elmo,

separare il morso.

Ma sostieni si possa
il respiro anche senza

intenzione, si possa
abdicare a una morte

violenta. Anche nuda
in un tratto io resto,

convinta di esistere.

***
 

Mettendo insieme le tue raccolte si osserva un’inquietudine che non si risolve e che, anzi, trova sempre nuovi elementi di lacerazione e di sfiducia nella solidità delle relazioni umane. Il dubbio dell’esistenza sembra farsi ancora più urgente, è un dubbio che da un lato non cede il passo al fatalismo del vivere, dall’altro guarda oltre la capacità del genere umano di generare armonia…

 

La sfiducia non deve per forza essere letta in chiave morale. La sfiducia è un atto di libertà. Libera gli altri dalla pretesa di fidarci e affidarci a loro, scioglie qualsiasi legame utilitarista. Non mi fido di nessuno e credo a tutti. L’inquietudine genera inevitabilmente dalla percezione della frattura, ma è la prova dell’essere svegli, di continuare a scegliere ogni giorno la vita, l’esistenza. In questo senso l’energia vitale, intesa come voler vedere, scoprire, cercare è tutto. Quando dico il mio corpo è parola, sto dicendo che l’esistenza linguistica, che caratterizza l’uomo, è una convinzione illusoria (da qui il titolo). Al tempo stesso sto dicendo che anche la parola è corpo, e quindi non è niente di superiore o altro. E questo è l’unico confine possibile del nostro esistere. Molto e poco allo stesso tempo. È tutto ciò che abbiamo, anche se molte volte abbiamo la tendenza di guardare troppo oltre. L’altro, quel tu a cui mi rivolgo, invece, può ricondurci a questa consapevolezza. Si torna al discorso che facevamo all’inizio tra pieni e vuoti, tracce e impronte.

Credo che l’impressione di cui parlavi “dell’io che si mette di traverso” nasca dal fatto che per raggiungere il nulla è necessario attraversare uno specifico io e al tempo stesso l’altro. Costruire avendo ben in mente che ogni forma andrà distrutta, si dissolverà e non resterà quasi niente, forse un tratto. La parola diventa segreto, i piani temporali si sovrappongono nel ricordo.

Come vivi lo stare in questo mondo piccolo della poesia, in cui tutto sembra sempre ridondante e c’è poca cura per la parola silenziosa?

Bisogna saper discernere, discriminare e tenere ciò che ci interessa. Cercare di non lasciarsi distrarre da valori che non condividiamo, tenere vivo il proprio fuoco, ritirarsi nel bosco ogni volta che si può e cercare di essere gentili.

Scrivendo una poesia ti è mai capitato di avere in mente uno stato d’animo preciso che desideravi suscitare nel lettore?

Direi che la sensazione sia simile a quando porti qualcuno a cui vuoi bene in un luogo importante per te affinché lo veda. Le poesie di solito emergono, raramente le progetto. Io le trascrivo e poi ci lavoro. Diciamo che cerco di guardarle come se fossi qualcun altro: cambio occhi, esperienza, personaggio. È un esercizio molto utile che di solito si fa con la prosa, per farsi auto-editing. A volte le poesie non cambiano più, altre volte cambiano molto, a volte si scambiano dei versi, altre volte cambiano poi tornano come erano prima dopo un giorno, mesi o anni. Metto ordine.

Alcuni stralci delle tue poesie sono finiti su internet come “frasi celebri”. Cosa ne pensi?

Non sapevo fosse successo. La poesia rispetto ad altre forme è abbastanza immune al fenomeno perché comunque nella maggior parte dei casi passa nella sua interezza ed è quindi più difficile da decontestualizzare. “Coraggio”, è una delle preferite dei lettori ed è girata un po’. Mi ha fatto uno strano effetto perché è una poesia a cui non sono particolarmente legata, è quasi un manifesto, un’affermazione reiterata, una delle più semplici che ho scritto, chiara e diretta. Una minima stupenda, la raccolta da cui è tratta, si immerge nella semplicità, pretende una sorta di diritto alla semplicità (anche se dentro sono confluite poesie che al tempo avevo sfilato da Anello di prova). La correttezza di una forma o di uno strumento dipende sempre dall’intenzione che uno ha.

La poesia è in grado di generare una nuova sensibilità collettiva, anche politica, attraverso l’esperienza della sensibilità personale condivisa nelle relazioni?

Certo, è l’unica speranza che abbiamo di risemantizzare e fare nostro il linguaggio, saperne vedere i limiti, i trucchi e i vicoli ciechi. Se non siamo padroni delle nostre parole non siamo padroni dei nostri pensieri, né del contesto che costruiamo intorno a noi e in cui agiamo. Ciascuno dovrebbe poter creare la sua lingua intima. La parola è oggi uno strumento troppo diffuso e potente per poterla trattare con negligenza.

***

È anche una bella chiusura per il nostro articolo. Il bisogno di rovesciare il rapporto di condizionamento tra alfabetismo e poesia si arricchisce della possibilità che offre la poesia stessa, risemantizzando il linguaggio, affinché si schiuda finalmente un percorso teso a recuperare il desiderio di un destino comune.
È un’ultima chiamata. La parola che torna a comunicare – mettere in comune – a indagare le diseguaglianze e combatterle. Una parola capace di smascherare gli inganni di cui essa stessa si nutre. Occorre, forse, svuotare sé stessi dall’ego smisurato che a volte ci abita, anche quello dei poeti per primo, per fare spazio alla meraviglia che può cambiare ognuno nel profondo, generando i frutti di un cambiamento collettivo.
È chiedere troppo alla poesia, a chi la scrive e a chi la diffonde?