Rivelarsi senza paura

Conversazione con Valentina Della Seta su Le ore piene, il suo romanzo d’esordio

Pier Angelo Cantù

Il romanzo di Valentina Della Seta, Le ore piene (Marsilio, 2021), nasce come risposta a una sofferta delusione amorosa. Così ho letto in una sua intervista prima di comprare il libro (che ha una bellissima copertina). Leggerlo mi è piaciuto, la lettura scorre velocemente, quasi non ci si stacca se non dopo averlo finito, nel giro di qualche ora.

Sono ore piene, in cui leggiamo la piccola storia di una donna di quarant’anni dalla vita quasi banale scandita dal lavoro come freelance. Già nella seconda pagina, la protagonista decide di provare a uscire da questa routine ed entra in un sito di incontri erotici. Fin qui nulla di particolare. A innalzare il livello della vicenda che si dipana da qui in poi sono i personaggi, lei e P. soprattutto. E la scrittura ferma, essenziale, autorevole senza ammiccamenti. Il libro è stato accolto da un successo crescente e da un bel passaparola.

Ho avvicinato l’autrice – ex giornalista di letteratura, cinema e costume – per entrare meglio nelle pieghe della narrazione. Le sono grato per la disponibilità a fornirci una più adeguata comprensione del romanzo, data la mia scarsa conoscenza delle tecniche e delle dinamiche BDSM.

Ho trovato molto bella e dolce la dedica iniziale a P., che lascia (forse?) trasparire elementi autobiografici. Quali pilastri hai scelto per dare un’identità non autoreferenziale allo sviluppo del racconto e alla voce narrante?

La dedica a P. si trova dentro il romanzo, quindi si può leggere come fai tu, come un dettaglio biografico, oppure si può considerare già un elemento di invenzione. La dedica può essere interpretata anche come una sorta di depistaggio da parte della voce narrante: avverte che le pagine che seguono raccontano fatti accaduti a persone che esistono, ma non possiamo sapere con certezza che dica la verità. In generale, in questo romanzo come spesso accade c’è una mescolanza di elementi di realtà con altri di invenzione. Per me la cosa fondamentale è stata la scelta di trattare tutto come se si trattasse di invenzione. Non mi sono messa a scrivere seguendo un piano di lavoro, avevo solo la determinazione (non sempre rispettata) a scrivere tutti i giorni. Mi mettevo davanti al computer e partivo da un’immagine o dal finale di una scena, cercavo la strada per arrivarci. Per farlo ho usato sempre l’immaginazione. Come scrive Aixa de la Cruz nel suo bellissimo e difficilmente catalogabile oggetto letterario Transito (uscito ad aprile per Giulio Perrone): «Le barriere tra la cronaca, le memorie, l’autofiction e la fiction sono inesistenti, perché scrivere è ricordare e ricordare è sempre un atto immaginativo. Scriviamo per lasciare traccia di chi eravamo un istante prima, quando ci siamo seduti davanti al programma di scrittura e siccome non abbiamo indizi, inventiamo». Quando ho letto questa frase ho pensato che esprimesse perfettamente quello che intendevo fare scrivendo Le ore piene.

C’è un largo uso del condizionale e non si sente mai una “voce” al di sopra di quella narrante. A chi ti sei ispirata dal punto di vista stilistico?

Volevo raccontare una storia e per farlo ho usato i mezzi che abbiamo a disposizione per la letteratura: le parole e la loro combinazione in frasi. Dal punto di vista stilistico mi sono ispirata a Tricks di Renaud Camus e a Caos di Edmund White, due romanzi di scrittori gay che hanno in comune il tentativo di raccontare il sesso come una delle tante cose della vita e non come uno strumento di rivendicazione o di scandalo. Sicuramente ho preso ispirazione anche da tutte le scrittrici e gli scrittori che ho letto negli anni. Credo si finiscano per assimilare le vitamine letterarie di tutte le cose che leggiamo nel tempo. Per finire, nel romanzo usato spesso il modo condizionale perché Le ore piene è un’avventura piena di fantasticherie, la voce narrante fantastica al punto di diventare febbricitante e confondere realtà e immaginazione.

La relazione tra la protagonista e P. sembra connotarsi nell’adesione confidente a un legame asimmetrico in cui è l’uomo a dettare le regole, mentre la donna appare come elemento passivo. Questo cliché viene neutralizzato lasciando spazio ad alcune fessure in cui i due si scambiano qualche tenerezza e danno voce a reciproche vulnerabilità. Qui il registro cambia e il rapporto si fa quasi romantico, poi cambia ancora e così via. Ti torna questa duplice voce nell’intreccio tra i due?

Non sono d’accordo con le premesse della domanda. Il fatto che nel romanzo ci sia un uomo a dettare le regole e la donna come elemento passivo è un puro caso. Breve spiegazione: il romanzo mette in scena una relazione BDSM, che non è altro che uno spettro di pratiche erotiche in cui non ha importanza il sesso o il genere dei soggetti, ma la loro volontà di concordare una relazione di dominazione e sottomissione, che è anche sempre ribaltabile. Sono giochi di ruolo che si attuano in contesti definiti, che possono variare anche in termini di tempo e investimento fisico ed emotivo, dal singolo incontro alle relazioni 24/7. Sono sempre scelte concordate in cui nessuno dei due soggetti rinuncia – se non per esplicita volontà – alla propria autodeterminazione. Ecco. La protagonista de Le ore piene incontra P. tramite un annuncio che fa parte di quel contesto e che spiega chiaramente quali dovrebbero essere i termini della loro relazione: circoscritta alle ore in cui si chiudono in una stanza. I due ne parlano e concordano tutto, poi le cose si complicano perché iniziano ad andare a cena insieme, a dormire insieme e si trovano a provare dei sentimenti imprevisti. A quel punto le cose diventano ambigue perché viene fuori qualcosa che ha a che fare con l’amore. Ci tenevo che trasparisse l’ambiguità dei personaggi. Da lettrice e scrittrice mi interessano poco le storie prive di ambiguità.

È in questi spazi ambivalenti che la relazione consente alla protagonista di coltivare scenari altri in cui nutrire il desiderio di costruire qualcosa di più solido. Un vissuto di coppia quasi canonico e d’altri tempi, se così possiamo dire. Cosa significa questo per una donna alla soglia dei quarant’anni e che dietro di sé ha un modello di coppia genitoriale decisamente disfunzionale?

La protagonista, con la sua immaginazione febbricitante, coltiva il sogno di condividere la vita con P. e declina questo sogno in modi diversi a seconda dei momenti. Alcuni sono fantasie erotiche, altri hanno a che fare con l’idea di poter vivere insieme. Ma la cosa che per prima la colpisce nell’incontro con lui è la possibilità, assolutamente non canonica e non tradizionale (almeno secondo le mie esperienze), di potersi rivelare senza paura, di poter esprimere i propri desideri e manifestarli. È qualcosa di molto potente, che fa sentire visti e riconosciuti nella propria essenza che si tende a credere impresentabile. Lo trovo rivoluzionario rispetto ai rapporti canonici legati ai traumi della scuola media, in cui si attuano strategie di potere a base di fuga e di non condivisione di desideri e fragilità.
Per rispondere alla seconda parte della domanda, non credo che la protagonista cerchi qualcosa di compensatorio rispetto al modello di coppia disastroso dei genitori, li racconta e basta, senza secondi fini.

Le ore piene mette in luce un mondo sommerso di persone comuni con desideri appagabili quasi esclusivamente in un universo parallelo rispetto alle relazioni vissute alla luce del giorno. Il baricentro mi pare risieda nel bisogno di alzare l’asticella della propria vita sessuale sperimentando nuove vie di appagamento, forse per conoscere altri lati di sé. Per la narratrice significa congiungere la vita infantile con quella adulta?

No, non c’entra nulla il desiderio di congiungere la vita infantile con quella adulta, la trovo forse una sovralettura psicanalitica. Alla protagonista piacciono le dinamiche sadomaso, le piacciono le cose che sperimenta in seguito. L’esercizio non è del potere ma di scoperta attraverso l’uso dei corpi. Scoperta di altri lati di sé, liberazione da preconcetti, scoperta di cose che, come ho detto poco fa, semplicemente le piacciono.

Citando un tuo recente racconto, quanto conta il sesso per la protagonista del libro da uno a dieci e quanto conta invece per P.?

Nel racconto il sesso li fa incontrare ed è la prima maniera in cui entrano in comunicazione; quindi, conta molto per tutti e due, in maniera diversa a seconda dei momenti, come accade anche nella realtà. Il desiderio è una variabile che non si può mai considerare fissa, per questo è così importante parlare sempre di consenso.

La protagonista parla di sé e delle sue vicende in prima persona. Da alcuni dettagli notiamo una spiccata sensibilità sociale (la raccolta differenziata, le difficoltà professionali ed economiche, l’attenzione per i più fragili…). La immaginiamo quindi sensibile anche ad aspetti tipicamente legati al femminismo, come la piena autonomia, la parità sociale, la dignità lavorativa. Come si armonizza con la scelta di consegnarsi a una relazione così marcatamente asimmetrica e chiusa nel privato?

Mi dispiace contraddirti ancora, ma la protagonista non si sofferma mai su aspetti sociali o politici, li nomina solo di passaggio. Sono dettagli che, a posteriori, posso dire che fanno parte della costruzione del personaggio, di un tentativo di tridimensionalità (se sia riuscito non spetta a me dirlo). Si tratta di un personaggio anche molto passivo, flaneur, che si limita ad andare in bicicletta, non fa sforzi per cambiare la propria vita o quella degli altri. Per quanto riguarda la relazione, lei non fa una scelta razionale come potrebbe essere quella di separare la plastica dall’indifferenziata. Si innamora e agisce di conseguenza. La relazione non è asimmetrica perché lei sceglie di sottomettersi sessualmente a un uomo, forse è asimmetrica perché è quella che, tra i due, ama di più. Ma credo sia importante non fare confusione tra queste due cose.

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Un elemento importante del libro è il contesto esterno: la città, i tragitti anche notturni che precedono gli incontri, la precarietà decadente dei luoghi. È un contesto che consente di prolungare la vita dissoluta e che appare quasi senza rischi. Un po’ in contrasto con ciò che viene raccontato dai media che scoraggiano le donne sole a uscire di casa. È una nota politica tra le righe?

La città è quasi un altro personaggio del romanzo, la protagonista si sente avvolta dal suo abbraccio. Non avevo intenzioni politiche o sociologiche, ma dato che il personale è politico forse qualcosa è venuto fuori. Ma quali media scoraggiano le donne dall’uscire sole di casa? Forse più che altro scoraggiano le persone che vorrebbero infastidirle. Non ho mai visto il mondo come un pericolo, e come la protagonista del romanzo sono sempre uscita da sola di notte per le strade di Roma, oggi vedo sempre più ragazze che lo fanno. E, come si dice, le strade sono fatte da chi le attraversa. Non c’è più posto per la paura.

Il finale mette in luce il rovesciamento continuo dei paradigmi che caratterizza un po’ tutto il romanzo, un bel modo per chiudere la narrazione lasciando aperti tutti gli scenari possibili. A seconda di come lo si legge, il lettore può trovarlo triste o gioiosamente liberatorio. Per te che finale è stato?

Per me valgono entrambe le cose: è un finale triste e liberatorio insieme, con dentro anche un po’ di felicità.

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Credits: la foto di Valentina Della Seta è di Giliola Chistè