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SERGIO MARTIN E LA RIVOLUZIONE: del pane e delle rose, oggi briciole e spine
“UN LIBRO PER CHI VUOLE CAPIRE LA STORIA DEGLI ULTIMI QUARANT’ANNI DEL SECOLO SCORSO”. La frase è scritta a chiare lettere su sfondo verde, sul retro del libro di SERGIO MARTIN.
“Il piacere della cultura come antidoto al nulla e la sua potenza come strumento operativo nella Polis”. Questo potrebbe essere il titolo del mio tema in classe, alla fine del Corso di Storia Contemporanea tenuto da Sergio Martin nella mia scuola ideale. Dopo aver letto il suo libro – DI MESTIERE FACCIO L’ORGANIZZATORE – STORIA VERA DI UN RAGAZZO CHE PENSAVA DI FARE LA RIVOLUZIONE, tutti gli alunni potrebbero produrre un elaborato scritto in piena libertà. Parole, schizzi e poesie potrebbero andare a comporre il tessuto della narrazione corale.
Forse io non prenderei dieci perché mi manca quella forza espressiva dell’esserci davvero stata dentro quelle storie che la Storia narra, ma il voto sul mio foglio sarebbe sufficiente, di sicuro, sia per l’impegno che avrei dimostrato, sia perché io negli anni Settanta ero una bambina che quel mondo l’ha visto sì ai margini della lotta del decennio precedente, ma che poi ne ha colto gli echi per i decenni successivi.
Io negli anni Settanta ci sono nata, appunto. Ricordo i casermoni del Quartiere Tessera e poi San Siro. I gelati confezionati che arrivavano in cortile con il ragazzo del carretto Motta. Mi scorrono negli occhi le ruote della 500 bianca di mia madre e gli ampi spazi ancora verdi tra la città e la periferia di Milano. Rammento la preoccupazione di mio nonno per il proprio figlio minore, lo zio Silvano, che se ne andava in giro per il mondo e ogni tanto scriveva di guai e peripezie tra Pakistan e Algeria, sempre via, sempre con lo zaino in spalla. Silvano aveva “fatto il ‘68”, gli scioperi e le contestazioni studentesche, era stato in prima linea e aveva levato grida acute di battaglia, fino a scegliere, molto tempo dopo, di seguire la via della filosofia orientale, dando vita ad un piccolo centro nella splendida campagna Toscana. All’epoca delle lotte, però, mio nonno aspettava alzato che Silvano rientrasse a casa e, quando lo vedeva tornare, ringraziava un’entità divina che per lui stesso – uomo creativo ed eclettico – se ne stava in una dimensione sincretica e multi potenziale (tra il dio dei cristiani, l’universo scientifico, l’affetto umano e la visione orientale delle cose). Il cugino Oscar, anche lui militante di sinistra, negli anni Settanta al tavolo grande del pranzo di Natale faceva partire la discussione vivace e accesa insieme a Silvano e poi si aggiungevano gli altri e allora le voci salivano allegre e anche no, mentre noi bimbi al tavolo rotondo spazzolavamo la faraona ripiena e l’anguilla marinata preparata dal nonno di Venezia. “Non urlate! Non riusciamo a ridere!” così, al limite, gridavamo più forte quando i toni della discussione politica e sociale si elevavano troppo. Noi eravamo già il nuovo mondo. La possibile rivoluzione. Ma c’era la tv, c’erano i coloranti artificiali e i conservanti, c’era il Nulla che avanzava, dieci anni dopo ci sarebbero stati i paninari, i centri commerciali, il territorio sempre più devastato. La storia insegna, da sempre, che occorre saper guardare bene dentro la Storia che è inevitabile scoprire Matrioska. Come la “favola” dell’anarchico Pinelli e del commissario Calabresi, che a rileggerla nel libro di Sergio mi si è aperto un libro polveroso lasciato sulla mensola della memoria.
“Anonimo e innocente, amavi l’anarchia: per questo t’hanno preso e t’han portato via. In una cella oscura ti hanno interrogato e poi dal quarto piano ti hanno suicidato.” (Canzoniere veneto)
I riferimenti storici degli ultimi quarant’anni del secolo scorso sono tantissimi, e io dico che occorre avere il libro di Sergio Martin, e leggerlo, e sottolinearlo, e praticamente studiarlo come si fa volentieri con i libri di scuola più belli.
Autoprodotto, il libro. Non poteva, forse, essere altrimenti. Quale editore può avere il coraggio della verità nuda e semplice, spontanea nel ricordo delle vite e delle gesta, delle morti e degli amori? Sergio Martin – che ha in comune con la mia famiglia le origini venete – ha contribuito a creare la cultura italiana, militando nei Circoli Ottobre e negli ambienti della sinistra partendo da Mestre per arrivare a Torino, passando da Roma e Milano e producendo bellezza come un contadino crea il suo raccolto di frutti rari. Divulgando la voce di coloro i quali hanno fatto delle idee creatività concreta negli anni sempre meno apertamente feroci e sempre più anestetizzati, gli anni nei quali io sono nata, ho frequentato le scuole elementari e medie e sono cresciuta senza conoscere l’iPhone e l’iPad.
Al fianco di Francesco De Gregori, amico di Lidia Ravera, organizzatore degli spettacoli di Dario Fo e Franca Rame, vicino a De Andrè e a Paolo Conte, negli anni Sergio Martin ha tessuto la bellezza incontrando e lavorando con decine di artisti e con personalità che hanno fatto la storia, come ancora Claudio Lolli, Marco Lombardo Radice e altri, così tanti altri che, a nominarli tutti, dovrei fare come minimo un articolo o un tema a parte…
Sergio Martin aveva i baffi, e adesso ha anche la barba – mi è apparso davanti improvviso e di sfuggita, ma di lui mi è rimasto il calore, il sorriso solare e il suo libro, la sua storia nella Storia, un piccolo grande romanzo di formazione
“Sono nato il 26 agosto, una data importante per me” – scrive – “perché mio padre, che faceva parte del personale viaggiante delle Ferrovie dello Stato, come ogni dipendente pubblico prendeva la paga il giorno dopo, il 27 del mese. Quindi, il 26, di soldi non ce n’erano mai, erano finiti”.
La storia comincia così, potremmo dire un po’ in anticipo, e gioca tutta sul tempo: quello giusto e non giusto, quello pronto e quello non maturo, il passaggio della vita tra rinnovamento e tradizioni. Anni, decenni per crescere nel corpo e nell’anima: il tempo è un elemento cruciale per forza, perché quel tempo particolarissimo, nel quale pare non si potesse evitare di tuffarsi e di prendere posizione da una parte o dall’altra, scorre fino al 1989, quando i muri cadono. Crolla il Muro di Berlino, e tanti altri confini si allentano.
I primi 40 anni di Sergio Martin, il suo passaggio dall’infanzia all’adolescenza alla maturità scorrono di pagina in pagina insieme alla “sete di giustizia” e all’organizzazione concreta, diretta, della bellezza, degli eventi artistici e politici. L’evoluzione è una rivoluzione anche del corpo e della sessualità, tematica che attraversa il libro con il filo rosso della scoperta dell’altro, della compagna e della donna senza negarsi mai l’esperienza della relazione come scambio tra creature umane incarnate.
“Imparai molto sull’amore e il fare l’amore e sul sesso e fare sesso ma anche sulla solitudine e la tristezza dell’animo umano, sulla difficoltà a comunicare e la difficoltà a capire, non basta dire, parlare, che sarebbe già qualcosa, bisogna impegnarsi ad ascoltare, entrare nei sentimenti, entrare nelle persone, capire le loro dinamiche.
Fermarsi ad ascoltare e ascoltarsi.”
Oggi, nel 2016, a distanza di quasi trent’anni, il contemporaneo guazzabuglio appare come un color marroncino, quello del residuo, della feccia, delle scorie di ciò che invece avrebbe potuto essere diversamente assimilato. Gli ideali di giustizia, di condivisione tra esseri umani senzienti, sono finiti nel brodo di quel che resta… Quel che resta del tempo. E a volte fa male vedere come è facile trasformarsi da pirati a radical chic. Occorre porre estrema attenzione, quotidianamente, per non mentire a se stessi. Solo con il piacere della cultura e con la profondità della ricerca interiore possiamo tenere alto il jolly roger della consapevolezza, ma questo percorso resta – e lo dico chiamando in causa anche la mia formazione personale e professionale, orientata alla psicologia analitica di Carl Gustav Jung – un percorso strettamente individuale che va affrontato però come un’impresa vitale in relazione con l’altro, con gli altri, per non cadere nell’individualismo. Ci resta la via della coscienza aprendo lo spazio alla cultura come luogo dell’anima, per dar voce al possibile nuovo in un tempo, quello attuale, che è del narcisismo, dell’apparenza, del Nulla da Storia Infinita.
Se contro il fascismo potevi combattere, scrive Sergio Martin parlando di suo nonno, contro la burocrazia non puoi. Contro le scelte imposte dall’alto e spiegate meccanicamente, contro i pretesti offerti alla gente “perché possa lamentarsi, così magari perde di vista i problemi veri”. Se contro il male che si presentava come tale potevi ribellarti, quando le ruspe distruggono il territorio, i fiumi, le foreste per i fini oscuri delle multinazionali che cosa puoi fare? Quanti ribelli occorre avere per contrastare un numero “x” di signori della guerra?
Sergio scrive sulla sua bacheca di Facebook: “Il Pane e le Rose. Ci sono rimaste solo le spine.”
Ma tranquilli, le spine non dolgono. Per non sentire il dolore c’è l’anestesia della contemporaneità, oppure un buon gelato industriale guardando Vespa. Scherzo, dai. Per quel che mi riguarda, la Vespa è ancora un motorino, e, prima ancora, una creatura che sa pungere. Che spine siano allora, e pungiglioni.
Almeno il gusto di pizzicare un po’ la pelle dura del Nulla.
– “Sergio Martin: dal ’97 a oggi ha navigato nella creazione di eventi legati alla musica, al teatro, alla politica. Ha organizzato spettacoli per il premio Nobel Dario Fo e Franca Rame, ha conosciuto Pasolini, è stato amico di Gian Maria Volontè. ha frequentato De Gregori, Venditti, Rino Gaetano, il primo concerto di De Andrè è stato organizzato da lui e fu sempre lui a lanciare Paolo Conte. E fu lui ad organizzare la prima mostra dedicata a Eduardo De Filippo. – Ha scritto anche “Licenza breve” con Stefano Micocci, Ed. Savelli – Ha curato i cataloghi “Dario Fo, Il teatro dell’occhio”, Ed. La Casa Usher – e – “De Filippo Vita e Opere”, Arnoldo Mondadori Editore.
Per acquistare il libro “Di mestiere faccio l’organizzatore – storia vera di un ragazzo che pensava di fare la rivoluzione” scrivere a Arbait@live.it
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