Stendersi su Nikita è attendere Dio? di Lisa Orlando

Traduzione da L’espace littéraire, M. Blanchot, a cura di Lisa Orlando. 

[Modificando Maurice Blanchot]

Bruchnov, il ricco mercante che nella vita aveva sempre agito (vittoriosamente) per sua volontà, mai soggiogato dalla sventura, mai sottomesso all’impero del caso, non poteva credere che un uomo come lui dovesse morire, così, tutto a un tratto, irragionevolmente, perché una sera si era perso in mezzo alla neve russa. “No, non poteva essere!” Inforcò il cavallo, abbandonò la slitta, e Nikita, il suo servitore, innevato già per tre quarti.

Bruchnov era risolutamente deciso a non piegarsi al disfavore del caso, ma a combattere, ancora, col fuoco della determinatezza, come, tra l’altro, aveva sempre fatto nella vita; proseguì il cammino, dunque. Ma non c’era più una forza attiva; egli camminava a caso, e questo cammino non conduceva in alcun luogo, era l’orrore che, come nel labirinto, lo trascinava nello spazio in cui ogni passo in avanti era anche un passo indietro; oppure girava in tondo, obbedendo alla fatalità del cerchio. Per la prima volta, Bruchnov, s’avvertì tutta l’impotenza, e di quanto la vita (illusoriamente diretta dalla traiettoria dell’agire umano) fosse invece manovrata dalla cieca ineluttabilità.

Partito a caso, egli ritornò ‘per caso’ fino alla slitta, dove Nikita, con addosso pochi abiti, stava sprofondando nella bianca neve della morte. “Bruchnov – racconta Tolstoj –, rimase qualche istante in silenzio; poi, improvvisamente, con la stessa fermezza che mostrava quando, concludendo un buon affare, stringeva la mano al compratore, fece un passo indietro, tirò su le maniche della pelliccia e si fece dovere di riscaldare Nikita quasi gelato”. In apparenza nulla pareva essere cambiato: era sempre lui, il mercante attivo, l’uomo risoluto, solerte, che trovava sempre qualcosa da fare e che, sempre, riusciva in tutto. “Ecco come facciamo, noi altri…”, diceva quest’uomo contento di se stesso; sì, egli è sempre il migliore e appartiene alla classe dei migliori, è proprio pieno di vita. Ma, in quell’istante, avvenne, straordinariamente, qualcosa. Mentre la sua mano andava e veniva sul corpo freddo di Nikita, qualcosa si ruppe, con quel gesto egli infranse prodigiosamente il limite; non era più ciò che avveniva qui e ora: con sua sorpresa, si sentì sospinto nell’infinito. “Nello stupore immenso di ciò che accadeva, egli non poté continuare, gli occhi gli si riempirono di lacrime, la mascella inferiore iniziò a tremare. Smise di parlare non potendo far altro che inghiottire ciò che saliva alla gola”. “Ho avuto paura” – pensava –, “sono diventato un debole”. Eppure questa debolezza non gli era sgradevole: gli provocava una gioia esclusiva, che mai aveva conosciuto fino ad allora”. Era la rinuncia a ogni forza, l’abbandono dell’estrema resistenza, il corpo che, sfinito, si congedava da ogni esibizione e si consegnava alla nuda infinitezza dell’essere.

Più tardi, lo trovarono morto, steso su Nikita, e stretto, fortemente a lui.

Morire in questa prospettiva è cercare sempre di stendersi su Nikita, stendersi sul mondo dei Nikita, stringere tutti gli altri, l’universo, tutto, il tempo… Stendersi su Nikita, ecco l’impulso incomprensibile e necessario che la morte ci rivela. È un gesto notturno, non appartiene alla categoria degli atti ordinari e non è neppure un’azione inusitata; con esso niente è fatto; e l’intenzione che lo fa inizialmente agire – riscaldare Nikita, riscaldare se stesso al sole del Bene – è svanita, è senza scopo, è senza significato, è senza realtà. “Si sdraia per morire”. Bruchnov, l’uomo risoluto e intraprendente, anche lui, non può sdraiarsi che per morire: è la morte stessa che all’improvviso piega questo corpo vigoroso e lo adagia nella bianca notte; e questa notte non gli fa paura, egli non s’arrende, non si ritratta dinanzi a essa, invece si lancia gioiosamente verso lei. Ma sdraiandosi nella notte, è su Nikita che egli si sdraia, come se in quella fusione estrema ci fosse ancora la speranza e l’attesa di una forma d’amore, ultima, come se non potessimo morire che affidando la nostra morte (o la somma richiesta d’amore?) a qualcun altro, a tutti gli altri, per aspettare in loro l’amore che verrà. Al di là dell’umano, nella terra, vergine, della morte, nella necessità dei corpi congiunti, l’amore che si attende non può altro essere che l’amore di Dio. 

Maurice Blanchot (Quain, 22 settembre 1907 – Le Mesnil-Saint-Denis, 20 febbraio 2003).
Nel 1944 rischia la fucilazione ma è salvato in estremo. Dopo la II guerra mondiale, Blanchot lavora ormai quasi solo come scrittore e critico letterario, collaborando alla «NRF» e diventando punto di riferimento degli intellettuali a lui coevi: la sua opinione è salda, profonda e guidata da studio e gusto certo.