TORNARE È UN ERRORE parte 1

Breve riflessione su: Dove tutto ebbe inizio, di Vitaliano Trevisan

“In effetti, più passa il tempo, più mi rendo conto che tornare a vivere qui non è stato affatto una buona idea”.

A pronunciare questa frase nella sua testa è il protagonista di Dove tutto ebbe inizio, un testo in appendice alla nuova versione di Works.

Essendo sia Works che il testo in questione un testo dichiaratamente autobiografico e scritto in prima persona come molti dei testi dell’autore, a parlare e a discutere – più che conversare – con il lettore è proprio Vitaliano Trevisan.

Rileggendo più volte Dove tutto ebbe inizio – il primo inedito pubblicato post mortem, mentre a ottobre a poco meno di un anno dalla sua scomparsa, è uscito in stampa il suo romanzo inedito (da tempo consegnato all’editore) Black tulips – ho sospettato che forse questo testo breve, fosse quello che più caratterizzava e meglio, la sua opera, forse la sua persona (in Trevisan fra l’altro credo sia difficile separare l’opera dall’autore).

Il testo inizia con una passeggiata, e il pensiero va subito al suo testo forse più conosciuto e che comunque più lo ha reso “famoso” (sul concetto di fama, e di come tale concetto si possa legare al suo mestiere, Trevisan ha scritto sia su Works, che proprio nel testo che analizzeremo): I quindicimila passi, in cui il protagonista, Thomas (come Bernhard, nume tutelare della scrittura di Trevisan) misura la distanza dei suoi passi durante le sue camminate giornaliere.

In Dove tutto ebbe inizio, il protagonista, cioè l’autore, compie la sua passeggiata in notturna (Naturalmente il paese è deserto e discretamente buio, cosa che in fondo apprezziamo, dato che non c’è niente da vedere) fra le strade del paese, del suo paese, dove è tornato a vivere. Proprio nella stessa prima pagina viene subito citato Thomas Bernhard: se Trevisan dichiara che tornare a vivere al paese dove era nato e vissuto per anni non era stata una scelta, ma uno dei tanti tributi a uno dei principî a cui è voluto sempre essere fedele (non fare mai un mutuo per acquistare una casa), l’autore austriaco invece contraeva un mutuo dopo l’altro così da essere costretto a scrivere.

Il protagonista utilizza la citazione di Bernhard per toccarci subito nel vivo: odiamo il mondo umano, ma dopotutto siamo ancora legati ad esso, dato che “non ci siamo mai veramente decisi a lasciarlo”.

Non essendo interessati a fare della pornografia del dolore sul come e perché della morte dell’autore vicentino, non possiamo però evitare di avvertire in quella frase un dolore che evidentemente, da lettori e da appartenenti al mondo umano, non siamo ancora riusciti a sciogliere.

Il suicidio è un tema (ma è un tema?) che ritorna spesso nell’opera di Trevisan, e che appare ferocemente anche nel già citato I quindicimila passi e nel resto della trilogia di Thomas.

Confesso ciò che non dovrei scrivere: quando Paola mi ha dato la notizia della morte dell’autore vicentino ho subito pensato, in modo del tutto pavido e squallido, a quella del suicidio come alla causa della morte.

Se uno ci pensa, una situazione di merda. Intendo la condizione umana in generale. Così scrive Trevisan appena qualche riga più giù.

È proprio già nella seconda pagina del nostro testo infatti che l’autore ci fa più male.
Racconta un’ipotesi: quella di ritrovarsi in un bar, a sfogliare “Il Giornale di Vicenza” e commentare È morto, avviando un dialogo con gli altri avventori del bar per arrivare a una conclusione nota. Si tratta dello stesso giornale (più volte citato in altre sue opere, e anche aspramente criticato, presente come parte di uno sfondo o di una ambientazione, o forse più come un adesivo di quelli che è poi difficile da strappare via) che ha realmente riportato la notizia della morte dell’autore, e di cui chiunque ha potuto leggere anche su internet, nei giorni seguenti, diverse notizie riguardo alla stessa.

Il fatto è che proprio non credevo mai che sarei arrivato a questa età […] Impreparato per i cinquanta. Impreparato anche per i quaranta. Impreparato sempre, a dire la verità, ma un tempo, l’idea che in ogni momento avrei potuto prendere l’iniziativa e farla finita, mi rendeva l’esistenza più tollerabile. In fondo, il bene più prezioso su cui l’essere umano può contare, ciò che davvero lo distingue dall’animale, è la possibilità di sottrarsi al mondo in ogni momento attraverso il suicidio. Ma perché questo pensiero possa essere di effettiva consolazione, la modalità dev’essere il più possibile estetica, e l’idea di suicidarmi ora, a cinquanta e passa anni, ha un che di ridicolo”. Così Trevisan, e forse il vero ridicolo sarebbe aggiungere qualche altro commento a un pezzo simile.

L’autore di Shorts, cita poi riguardo al suicidio, altri autori che hanno avuto il “coraggio” di attuarlo da giovani, come Sarah Kane, Stig Dagerman, Carlo Michelstaedter, e commenta con un ironico: “Adesso è tardi. Dovrò rassegnarmi a portare in giro la carcassa difettata per il tempo che sarà”.
 

Da qui Trevisan inizia una delle sue – stranamente fugaci – invettive (abbastanza riconoscibili quelle nei confronti di un noto attore del cinema italiano, contenuta in Works, quella su di un altrettanto noto regista cinematografico italiano in Grotteschi e arabeschi, e altre, svariate stilettate più o meno brevi nei confronti della scrittrice italiana che proprio di Trevisan ha scritto anni fa, dell’autore italiano padre del “teatro civile”, solo per citarne alcune) nei confronti degli scrittori colti dal successo soprattutto da giovani. E da questo spunto, figlio di un precedente ulteriore spunto – ecco che torna T.B. – Trevisan si concentra su fama e successo in ambito letterario, e pertanto sulla stupidità (citando apertamente C.M.Cipolla).

E si concentra sull’abitudine di fare quello che ho già scritto nelle precedenti righe riguardo all’attribuire “la stessa visione del mondo dei suoi personaggi” all’autore.

Ma come non perorare la sua causa, anche quando sfoglia la parola comunicare, così presente e così ipertrofica in qualsiasi testo di qualsivoglia natura elaborato negli ultimi anni, per urgenza di comunicare (“[…] dove tutto si insegna meno che a comunicare in modo chiaro e diretto, semmai il contrario”).

Così Trevisan ritorna al concetto di notorietà citando incontri per strada con lettori che seguono il suo lavoro (“Ti seguo sai?, dice, Ti seguo da sempre – ed è qualcosa che mi inquieta, voglio dire l’idea che qualcuno mi segua, e poi da sempre”) e legandosi proprio a Works ripristina la necessità del lavoro di scrittore come di un lavoro da retribuire (“Nessuno si sognerebbe mai di chiedere a un idraulico di riparare un rubinetto gratis”).


[continua…]