TORNARE È UN ERRORE parte 3

Breve riflessione su: Dove tutto ebbe inizio, di Vitaliano Trevisan

“In effetti, più passa il tempo, più mi rendo conto che tornare a vivere qui non è stato affatto una buona idea”.

continua […]
 

a cura di Giuseppe Rizza 

Se l’ombra conclude affermando che il paese ormai è morto, da quando hanno chiuso la fabbrica, Trevisan, che nella fabbrica in questione non ha mai lavorato, concorda, fra sé e sé.

Se i veneti, riporta Trevisan citando Piovene, sono “miti, devoti, docili, riconoscenti, sempre pronti a leccare la mano che dà loro da mangiare”, l’autore di Tristissimi giardini non può fare a meno di notare la loro maschera da commedia dell’arte, dove il teatro e l’esistenza sono commistione di tragedia e commedia, una risata triste.

Il discorso di Trevisan sulla concezione del lavoro in Italia, da decenni, con tutte le conseguenze disastrose dell’attualità, è incendiario, un altro ulteriore anello aggiunto a Works.

Le famiglie d’imprenditori che costruiscono paesi al servizio del capitale, al servizio dell’espansione privata del capitale, con le abitazioni vicine al luogo di lavoro, e così il tempo destinato alle attività ricreative, la creazione di una vera e propria dipendenza quasi affettiva degli operai al padrone.

E poi il palloncino che espande il suo corpo così tanto da scoppiare: i licenziamenti, la dismissione, lo svuotamento del territorio creato in funzione del capitale che si priva automaticamente di qualsiasi scopo, l’animale diventa carcassa.

Non si può non dare lustro al grande padrone che regala al proprio territorio, lavoro, case, e perfino luoghi pensati per le attività dopolavoristiche, il suo è un marchio a fuoco, una firma su una creazione: il paese.

Quello da dove tutto ebbe inizio.

Il creatore a cui mostrare tutta la propria devozione è Roi, figura ovviamente carismatica per decenni, il cui nome ricorre nelle vie, nelle scuole, nelle piazze.

Tutto questo, sostiene Trevisan (e come non dargli torto), crea una struttura non solo fisica nel territorio che si abita, che si viene ad abitare perché fornisce lavoro e sussistenza, ma crea, deforma, anche i pensieri e la psiche di chi ci abita. Anche per uno come Trevisan che alla fabbrica non ha mai lavorato.

Fino alla morte, nel 1926, del marchese Roi, la fabbrica era un canapificio, poi convertito alla fine degli anni Cinquanta in fabbrica di apparecchi di illuminazione.

E così, come spesso accade con alcuni genitori che riversano sui figli i desideri non compiuti durante la loro vita, la madre (che era impiegata come tessitrice, ma che non si avvalse della possibilità di essere riassunta nella nuova produzione) vive nel rimpianto dell’indipendenza lavorativa (e non) smarrita da quando è madre (il padre di Trevisan si oppone nel volere una moglie obbligata a lavorare) e insiste negli anni affinché il futuro scrittore accetti le possibilità d’impiego nella fabbrica, così da diventare uno dei suoi figli.

Trevisan intravede in questa operazione una frustrazione da parte della madre, che lo vede quasi come il colpevole della sua ormai smarrita autonomia, tanto che ogni occasione era buona per rivangare quanto accaduto (“Sono stata a casa per star dietro a voi, diceva a mia sorella e a me, Perché vostro padre non ha voluto che andassi a lavorare; Ah che sbaglio che ho fatto!”).

È proprio la madre che organizza attraverso una sua conoscenza un colloquio di lavoro per assumere il giovane Trevisan, e quest’ultimo si sente umiliato dal suo comportamento, dal tentativo di raccomandazione.

Curriculum preparato come richiesto, colloquio effettuato, lefaremosapere di rito (“Fu la prima e ultima volta che varcai il cancello della fabbrica”).

La raccomandazione non era servita a niente, e malgrado il sollievo, Trevisan confessa che allora rimase in parte anche deluso.

  

Ecco la differenza, la mutazione del territorio – anche quello mentale – su cui Trevisan si sofferma: se ai tempi del padrone, il grande padre costruisce non solo la fabbrica, ma le case, la piazza, il dopolavoro, con la nuova produzione e proprietà si crea invece un gruppo di manager preoccupati della gestione del lavoro, non occupandosi più, malgrado la centralità della sua attività nel tessuto economico e sociale del paese, dell’urbanistica dello stesso. Il paese ormai è diventato un dormitorio.

Il cemento non si è fermato, così Trevisan, dal dopoguerra ad oggi, trasformando il territorio.

Se tale trasformazione sia stata in meglio o in peggio, è inutile specificarlo.

Una trasformazione che ha investito anche il lavoro: dalle grandi fabbriche ai capannoni.

Dal decadimento della fabbrica segue il decadimento del territorio, e lo stesso Trevisan non ha ricordo del mito preindustriale del Veneto rurale.

“La fabbrica potrebbe restare così, abbandonata, ancora per anni. Perché diventi una piccola foresta ne basterebbero una trentina”.

La proposta di Trevisan è di lasciare la fabbrica alla sua proprietà privata: “Non fare assolutamente nulla”, fare in modo che i ritmi della natura, per tornare al discorso dello scrittore di montagna, facciano il loro corso. In pochi decenni, così l’autore vicentino, la natura farebbe della fabbrica un polmone verde, e nello stesso tempo si potrebbero visitare le rovine della fabbrica, un’identità che sia da monito, sulla deformazione del lavoro e del paese.

Un Progetto di Abbandono, scrive Trevisan, lo stesso che purtroppo ha incarnato lui stesso, poco meno di un anno fa.

Note

*tutti i corsivi, al netto dei titoli delle opere di Vitaliano Trevisan, sono tratti da Dove tutto ebbe inizio, in Works, edizione ampliata, Einaudi, 2022