UN BREVE RESPIRO PRIMA DI AFFONDARE

Quando leggi un racconto, un racconto di un’autrice esordiente, e questo racconto ti fa l’effetto di certe riflessioni di Charlie Brown quando è dentro al letto – il suo letto con quel piumone che solo a guardarlo senti meno freddo – ed è questione di ore e per lui inizierà un nuovo giorno di scuola, di scuola e di ansia, ma tu che leggi, mentre leggi queste tavole del signor Schulz, mentre le leggi per dire, nella sala d’aspetto dell’ennesimo medico specialista, ti senti bene e rassicurato, lo sei talmente che ti verrebbe pure voglia di dare un’ultima possibilità al genere umano, e di entrarci tu dentro quel letto, al posto di Charlie, perché sai che di freddo per una volta, per una sera che hai letto questo racconto, questo racconto di una giovane scrittrice esordiente italiana, non ne sentirai, perché ancora il libro è appena uscito, chissà in quanti la conosceranno, e allora decidi pure di rileggerlo, a voce alta questa volta, per registrarlo, un vocale di diversi minuti da mandare a una platea ristretta di persone che potrebbero accettare un plaid blu per le loro sere autunnali sui divani.

È stata questa la prima sensazione leggendo il primo racconto della raccolta di Francesca Piovesan, A pelle scoperta (Arkadia editore), il piacere della scoperta, e di volerla condividere, con il luna park del primo racconto, e poi via via: un uomo che presenzia ai funerali e ai matrimoni (“[…] la odiava come odia un bambino con la sua purezza, con l’idea che i pensieri non possano far male, che un sasso lanciato in aria non possa ferire un occhio o tagliare una testa”), una donna che attraversa le notti guidando in autostrada (“Lampi di luce negli occhi. Questo era quello che succedeva a Lucia, lampi di luce negli occhi”), biscotti della fortuna, voliere, piste da ballo e maschere di carnevale, karaoke al bar, una coppia di nudisti sessantenni, sciroppi alle erbe, cineclub dove rivedere Lanthimos.

I racconti della Piovesan sono racconti come una carota potrebbe essere una merenda.

Sono qualcosa di diverso, ma se non racconti non sapresti come definirli altrimenti, sono minute e minuziose polaroid scattate alla luce del sole dell’una, che ritraggono personaggi secondo una prospettiva che non riesce ad essere così distante come ad una lettura disinvolta potrebbe apparire: la scrittura riesce ad essere riservata, ma tutela i suoi protagonisti, le persone che la abitano.
Le storie in effetti non sempre diventano delle storie, spesso sono frammenti, riflessi, vapori, di una storia più grande di loro, e che all’autrice non interessa raccontare, o almeno non completamente, avendo cura di ritrarre empaticamente momenti in cui la vita è affrontata a pelle scoperta.
[Poi, arriva il piumone, la coperta, il plaid].

Aveva pensato solo a imprimersi nelle mani i contorni di Nicola, dove finiva un muscolo e iniziava l’altro, quale vertebra aveva risuonato mentre lui era sopra e lei sotto. Aveva sentito la pelle rotta del sedile, forse era stata la cenere di una sigaretta fumata aspettando la moglie, e aveva sentito l’acqua umida del fiume baciarle il collo e incastrarsi nello stomaco.

Giuseppe Rizza