UNA SCRITTURA INCURABILE

Lo spettro di Beckett si aggira fin dal nome della casa editrice – Edizioni dell’Assenza, casa editrice palermitana che si impegna a riportare in libreria autori caduti nell’oblio: fra questi Emmanuel Bove – facendo capolino nell’opera di Luisa Stella, pubblicata in un delicato cofanetto che raccoglie i romanzi “Delle Palme”, “Tre insonni”, i racconti “Il medico degli incurabili e altri racconti”, e le opere teatrali in “Teatro”.

Ciò che risulta subito evidente nella scrittura della Stella – la cui nota biografica segnala solo che abita a Palermo, dove ha esercitato l’attività di medico – è la sua accuratezza: l’artigianato è evidente, e se il legno è grezzo e di qualità, si intravede il lavoro – e forse anche lo sforzo – attraverso il quale è stata partorita.

La scrittura dell’autrice palermitana è inoltre impregnata di riferimenti non solo alla sua terra, e alla cultura della sua terra, ma riecheggia diversi autori siciliani: è rintracciabile l’atmosfera pirandelliana, ma anche quella fuori dal tempo, di Bufalino.

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Eppure, personalmente, ritengo che i richiami siano anche altri: il sentire le campane, che un personaggio avverte in uno dei racconti, mi ha ricordato l’incipit di un romanzo del grandissimo autore ungherese László Krasznahorkai, ma si avvertono anche i fantasmi e le nebbie di Silvio D’Arzo, e un certo gusto per la beffa tipico della letteratura sudamericana.

L’opera più curiosa però rimane il racconto lungo: “Il medico degli incurabili”, già pubblicato in passato da “Cronopio”, un inno vagamente sarcastico ma allo stesso tempo scarnificato di come nella vita ci si possa lasciare andare con una semplicità a tratti sconcertante: “Tutto cominciò con una coppa di gelato e con una frase fuori luogo. Da quel momento il dottor Sallù non conobbe requie”, così l’incipit.

Da qui ha inizio una storia che come ne Lo straniero di Camus sfuma ben presto nell’assurdo, dove l’inappetenza del protagonista, un medico che si è fatto la fama di essere “specializzato” nella cura di malati ormai incurabili (riecco gli echi di Bufalino), arrivati alle loro ultime ore di vita, diventa la protagonista trasognata di questo racconto che come nel seguente “Il paravento”, riesce a trasmettere il meglio della sua autrice in atmosfere disincantate, quasi irreali, in cui è difficile credere eppure risultano così plausibili da immergersi dentro con assoluta naturalezza, dove anche la lingua usata non necessita di grandi imprese per rifornirsi.

Pur rifacendosi, chissà quanto volontariamente, a esempi notevoli della letteratura siciliana novecentesca, quella di Luisa Stella, è una scrittura – a metà fra un’impostura argentina e un impianto russo – che rimane un unicum nell’attuale ipertrofico panorama italiano, si spera destinato a uscire dall’ombra.

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(Giuseppe Rizza)