Capitolo I

Questo volume nasce sotto i peggiori auspici. Volevo scrivere un libro che cantasse le lodi del poeta Roberto Amato, che ne raccontasse la vita e ne celebrasse l’opera. Ma lui si è opposto. Non credo per modestia, quanto per il timore che non lo celebrassi abbastanza. Però, siccome non ha molti altri disposti a celebrarlo, è tornato sui suoi passi, mi ha detto di sì. Un sì che un pochino continuava ad essere un no. Diciamo che, in mezzo a mille tentennamenti, egli ha messo in atto una strategia di resistenza passiva, di non collaborazione, il suo motto è stato: «Non approvo ma consento». La lotta si è fatta via via più difficile con l’avvicinarsi della scadenza di pubblicazione. L’ultima volta che sono andato a trovarlo ho penato non poco per entrare in casa sua. La porta, che pure non era chiusa a chiave, faceva fatica ad aprirsi, sentivo un impaccio, un peso molle e greve che impediva alla porta di girare sui cardini, come un sacco imbottito che fosse appoggiato dal dentro. Non era un sacco, era Amato stesso che, sdraiato in tutta la sua lunghezza come un pesante rotolo di stoffa, cercava di impedirmi l’ingresso. Non parlava, non fiatava, non aveva il coraggio di dirmi no. Per questo l’ho odiato. Stava lì in terra come uno smisurato siluro appena pescato, boccheggiante. Ma nel fondo dell’occhio gli brillava, appena percettibile, una recondita soddisfazione.

Il poeta Amato porta gli occhiali spessi

Il poeta Amato scrive poesie per tanti motivi, ma essenzialmente perché si sente solo al mondo, nonostante che abbia una moglie e molti figli, anzi, proprio da loro si sente bistrattato. Per cercare di stabilire un principio di autorità maschile in casa sua, ha messo al mondo i figli in questo modo: prima un maschio, poi una femmina, poi un altro maschio e poi un’altra femmina e così via, non so quanti siano in tutto, non sono mai riuscito a contarli. Con questo sistema, dice Amato, «Ogni maschio può dire di essere fratello maggiore di almeno una femmina». Ma è, con tutta evidenza, un tentativo patetico fatto da un uomo che non ha mai contato nulla e non riesce a contare nulla, nemmeno adesso. Per esempio, qualche giorno fa gli ho telefonato e ho sentito che in casa sua c’era proprio una rissa: era uno dei figli maschi che batteva una delle femmine e questa rideva, rideva e quell’altro giù colpi. Però davano fastidio e Amato stava lì inerme, ogni tanto si beccava una sberla anche lui e diceva con una vocina lamentosa: «Dai, smettetela, non lo vedete che sono al telefono, sono vostro padre» e loro colpi, urla, risate…

La casa del poeta Amato non è una casa. Io ci sono stato più di una volta e posso garantire che è una specie di corridoio lunghissimo con in fondo la porta del bagno, che è sempre chiusa perché dentro c’è un filosofo suo amico, il filosofo Borso, che lo va a trovare, mangia come un otre e poi si sente male. Così poi le figlie minori di Amato iniziano a strepitare una dopo l’altra perché devono truccarsi e vogliono fare la doccia, e invece nel bagno c’è il filosofo Borso con la diarrea o col vomito. Allora le figlie minori, innervosite, attaccano briga con i fratelli maggiori che però iniziano a batterle per fare rispettare l’ordine maschile della casa che non vige mai, neanche a suon di botte, perché Amato è un cincischione che se le fa fare di tutti i colori. Il filosofo Borso, una volta che tornava con Amato da una gita, si è sentito male perché erano stati da un pastore, gli avevano comprato una forma di formaggio e se l’erano mangiata intera con un fiasco di vino andante. Amato non si è sentito male, ma Borso sì, perché non avevano neanche un tozzo di pane e allora Borso, come pane, aveva raccolto in terra delle croste di formaggio marcio che secondo lui, da filosofo, erano «la cosa più vicina al pane» che ci fosse nei paraggi. Così dopo ha vomitato anche l’anima e per poco moriva, mentre fuori dalla porta del bagno le figlie minori di Amato ridevano e i fratelli maggiori le picchiavano.

La casa di Amato, essendo fatta a corridoio, è piena di porte da cui sbucano di continuo i figli e le figlie di cui sopra e a volte anche la moglie, ma poco perché lei se ne sta sempre rintanata in cucina a preparare il pesce per il maritino che poi, invece, fa lo schizzinoso e gli dice con la sua vocina da schiaffi: «Non ho fame, me lo fai un uovo?». Io gli direi: «Fattelo te un uovo, ti ho cucinato uno spaghetto allo scoglio, un fritto di paranza, il polpo caldo, un’orata al cartoccio, le patate fritte, le patate arrosto e te mi dici se ti faccio un uovo, vainculo». Invece no, lei si alza, va in cucina e gli cuoce un uovo alla coque che poi lui spacca col cucchiaino e ci infila dentro il beccuccio. Poi magari, per finire il pasto, mangia un chicco d’uva. Comunque, questo corridoio pieno di porte è poco illuminato perché c’è solo una lampadina fioca verso il fondo, vicino alla porta del bagno. Quando uno entra dal portone d’ingresso e vede questo corridoio tetro, e sente i rumori del filosofo Borso chiuso in bagno, e le figlie di Amato che starnazzano e i figli che ruttano per darsi importanza, e sente l’odore di pesce fritto che viene dalla cucina, gli viene da andare via, da scappare. Magari Amato è lì sulla porta, che ti guarda con gli occhiali spessi, ti guarda e ti chiede se vuoi entrare e tu gli dici: «No…devo andare via, mi aspettano a pranzo». E lui: «Ma non dovevi venire qui a pranzo?» E tu a quel punto non sai più che fare, perché sei scoperto, ma non te la senti di entrare, hai una fame da lupi ma d’infilarti in quella casa non ne hai mica voglia, ti viene invece voglia di piangere e allora farfugli delle frasi incomprensibili e cominci a retrocedere passo passo, ti allontani. Amato si sporge dalla porta, ti dice: «Ma dove vai? Vieni che mia moglie ha fatto una spigola al forno!» Ma tu ormai sei lontano, per fortuna, continui a ciancicare frasi di scusa e alla fine dai le spalle ad Amato, scantoni al primo angolo e ti infili in una pizzeria.