ULTIMO Capitolo XIV

Stanotte, Amato, abbiamo parlato molto. Abbiamo parlato in sogno, come ormai facciamo da qualche tempo. Eravamo nel tuo negozietto di scarpe, ma di scarpe non ce n’era neanche una. Tu stavi seduto a un tavolo ed era come se cucissi qualcosa. Anch’io ero seduto al tavolo. Il negozietto non aveva pareti, eravamo sotto un portico in mezzo alla campagna. C’era uno stradello che costeggiava il portico e poi un fosso e poi dei campi. Stavamo lì e parlavamo del tuo ultimo libro, quello che è il più bello di tutti, come ingenuamente e protervamente tu pensi. Pensavamo a quale editore mandarlo. E poi c’era la questione dell’altro libro, quello mio, cioè questo: a chi poteva mai interessare?

Senza titolo

C’era un velo di malinconia nelle tue parole, come sempre. E io come sempre non sapevo sollevare quel velo, stracciarlo, fare in modo che tu volassi fuori da quel maledetto negozietto: «Guarda» ti dicevo «è tutto aperto, non ci sono pareti, non ci sono porte, puoi andare dove vuoi». Allora ti alzavi, gli occhi ti si illuminavano un poco, prendevi il bastoncino con cui ti piace giocare a fare il vecchio e ti incamminavi per lo stradello. Ma facevi pochi passi, arrivavi alla prima curva, che poi lo stradello si inoltrava nei campi, ti fermavi, ti giravi verso di me come fanno i bambini che chiedono ai genitori il permesso di proseguire, io ti dicevo di continuare senza voltarti, dai, dai, ce la puoi fare, vai che sei grande, Amato, vai nei campi. Ma tu non ti muovevi, stavi lì per un po’ con il naso in su, lo sguardo perso e il bastoncino a mezz’aria, tanto non ti serviva a niente. E poi ti giravi, tornavi sui tuoi passi, tornavi al negozietto senza scarpe né pareti e ti mettevi di nuovo seduto al tavolo del nulla. E stavolta non parlavamo più di libri, né di editori, stavolta le parole erano andate tutte a farsi benedire, maledette parole del poeta Amato senza scarpe, senza piedi per camminare, senza lingua per farsi intendere, e maledetto me che non ti ho mai ascoltato e non ho mai imparato la tua grazia segreta.

Poi è venuto un merlo. Si è posato sul tavolo. Aveva nel becco un cartiglio. Ha lasciato che glielo sfilassi ed è ripartito. Ma non è andato lontano. E’ andato a zampettare lungo il fosso, nella terra umida a caccia di lombrichi. Cosa c’era nel cartiglio? Questi versi anonimi:

roberto è certo d’esser nato
da un uovo ma è interdetto
se fosse di cicogna oppure d’oca

sua madre comunque era una cuoca
originale non sapeva fare
un uovo al tegamino
forse per rispetto al suo bambino

ma preparava una purea d’insetti
davvero magistrale

*
senti che letterina che ti mando
fruscia alla porta scivola furtiva
sotto la suola della tua pantofola

ma tu non te ne accorgi la calpesti
lasci il gatto padrone del divano
sali sul tetto a scrivere i tuoi versi

poi ti lamenti dici ti trascuro
non vengo più a cercare sulla spiaggia
le gambe delle bambole le braccia

*
è meglio se mi accendo la mia pipa
e me la guardo che mi fuma in mano

o in certi pomeriggi tanto mesti
apro a caso le cucine celesti

certo mi dico questo qui racconta
la vita la sua vita
ma quella che è già stata
o quella non ancora cominciata?

e questi personaggi familiari
son stati proprio vivi in carne ed ossa
e vini e mangiarini
mestieri e fissazioni

oppure sono attori su una scena
che non è mai esistita
e aspetta tutta nuova nella luce
fresca della memoria?

Allora mi sono incuriosito e ho chiamato il merlo:
– Merlo, vieni qua!
– Mi chiamo Mario, ha detto il merlo.
– Senti Mario, chi li ha scritti questi versi anonimi?
– Li ho scritti io.
– Allora non sono anonimi.
– No.
– Meglio così, non mi sono mai piaciute le cose anonime, sono sinistre.
– Io mi chiamo Mario.
– Lo hai già detto.
– Ribadivo.
– Senti Mario, che fai nella vita?
– Il critico in versi.
– Che professione è?
– La professione del futuro.
– Mah, avrei qualche dubbio.
– Però questi versi ti piacciono.
– Lo ammetto.
– Sono versi critici, parlano del poeta Amato.
– Sì, questo l’ho capito.
– E’ già qualcosa.
– Scusa, ti sembro scemo?
– No, infatti li hai capiti.
– Non ci vuole molto a capirli, sono chiari.
– La chiarezza è virtù di pochi.
– Non fai certo il modesto.
– No.
– Un po’ di modestia ti farebbe bene.
– E perché mai? Sto benissimo senza.
– Eri più simpatico prima.
– Prima di che?
– Prima. Quando i tuoi versi erano anonimi.
– Se vuoi vado via.
– No, resta pure.
– Non posso, il mio tempo è scaduto.
– Ma dove vai?
– Ciao!

E così il merlo Mario è sparito nel cielo come era venuto. Sono tornato a te, Amato, ma il merlo Mario ha ragione: tu racconti la tua vita, ma quale vita racconti? Quella che hai vissuto? Quella che hai immaginato di vivere? Quella che vorresti ancora? Ma tu dirai che non è vero, che quella non è la tua vita, la tua vita è tutta qui, nel negozietto vuoto delle scarpe. Eppure, quand’anche la vita che racconti fosse tutta frutto di fantasia, sotto c’è qualcosa di vero. Quei «personaggi familiari», tutti «vini e mangiarini», dove li hai visti? Li hai incontrati in sogno? Nel sogno si sono dilatati, gonfiati come nuvole, ma tu da qualche parte, nella tua vita di bimbo, li hai incrociati, sei cresciuto in mezzo a questa umanità cuciniera e un po’ pazza. Pazza come quel tuo antenato, il falegname Eugenio, internato al manicomio di Maggiano, prima degli anni di Tobino. E’ inutile che scuoti la testa, Amato, viene da lì la tua pazzia e il tuo gusto per gli scaffali prensili che costruisci per Adelaide. Eugenio era linfatico e affetto da mania di persecuzione. Ma tu lo hai visto cosa costruiva? Degli ordigni di legno incredibili, delle pipe-calumet girevoli, piene di personaggi, facce primitive e strane, ghirigori… tu sapresti fare? Chissà, anche i tuoi scaffali non sono cosa da poco, con tutte quelle ramificazioni, quelle braccia retrattili, quegli espositori a scomparsa… Adelaide ne va fiera e con ragione, ci si libra agile e sicura, sono il sostegno della sua vita.

Ma io non sopportavo più la situazione, tu lì sotto il portico, col tuo cucito inesistente, di fronte ai campi immensi che non osavi affrontare, e io lì, immobile e senza parole. Mi sono alzato, me ne sono andato per lo stradello che di colpo si è fatto strada di una città estiva, con le case basse ai lati, il cielo che imbruniva alto d’azzurro, l’odore dell’asfalto caldo nella sera. E tutto un brulicare di vita dalle finestre aperte, con le luci già accese, gli odorini di cucinato. Mi sono sentito vivo, cazzo, alla facciaccia tua, maledetto poeta, e ho camminato assaporando i passi, respirando bene, rimpiangendo sì le occasioni perdute, ma deciso a trovarmene altre, ritto in mezzo a questi cinquant’anni da ragazzo che dureranno poco e vanno spremuti bene perché di gocce non ne restano poi tante. Amico mio, che tu sia maledetto, io ti bestemmio perché non so cos’altro fare per toglierti di lì, dal tuo cunicolo d’aria, dalla tua gabbia aperta. Se bastasse il vento caldo che stasera mi sfiora, gli avrei già parlato, al vento, gli avrei detto le cose come stanno, lo avrei pregato di soffiarti via lontano, di sperperarti nei campi come una bocca di leone. Ma so che non basta, so che se il vento soffiasse più forte a gonfiarti camicia e pantaloni tu ti rannicchieresti sotto il tavolo, ti aggrapperesti ai gambi. E se poi soffiasse ancora più forte, deciso a strapparti a te stesso, se ti battesse in faccia come uno schiaffo o, fattosi belva, ti aggredisse alle spalle come ghibli, ecco, lo so, tu ti spezzeresti. Non c’è speranza di restare insieme, io qui ti dico addio, me ne vado per la mia strada col fiato che mi manca, il passo greve, da animalone estivo in pantaloni corti, me ne vado e ti piango, ma non mollo, deciso a rotolare insieme al mondo. 

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