Capitolo XIII

Senza titolo

Avrei voluto fare di Roberto Amato un personaggio da romanzo cavalleresco, un Donchisciotte, e io avrei potuto fare Sancho Panza. Se almeno Amato avesse compiuto delle gesta spettacolari… ma niente, le sue gesta sono i suoi libri e io non vorrei parlare di libri. Mi toccherà farlo? C’è stato però un tempo in cui Roberto era un poeta clandestino. Più che altro dipingeva. Le tele cominciarono a non bastargli e prese a far versi. Era il 1995 e lo scrittore Manlio Cancogni, in veste di critico d’arte, scriveva:

Amato è un pittore. Con un segno morbido e tuttavia sicuro, usando tinte neutre appena adombrate, nei suoi quadri Amato sembra inseguire un sogno arcaico di purezza che fa pensare al nostro trecento. Specie certe immagini di tonde colline, evocate solo dal loro profilo, con qualche isolato alberello, ci rimandano commossi alle tavole dei maestri senesi, o a quanto è rimasto di quel purissimo mondo nel nostro impuro paesaggio. Penso alla Maremma fra Livorno e Grosseto; alla zona di confine fra alto Lazio e Toscana meridionale.

Sono davvero le colline senesi o quelle maremmane a far capolino dalle tele di Amato? O non piuttosto delle dune costiere, dei sabbioni grigiastri? I quadri tappezzano la casa del poeta, quel corridoio in eterna penombra, si nutrono della luce smorta dell’unica lampadina. Sono lì, tutti quelli che ha fatto, non ha mai avuto l’idea di venderne uno, e sì che gli acquirenti non sarebbero mancati. Non c’è una figura umana che affiori, solo curvi profili gibbosi, incastri di forme astratte, nature morte della mente. E guai a parlarne con lui, si irrita, finge di disprezzarsi, come appartenessero ad altri, ad un’altra vita, ad un passato che non è il suo. Però li tiene lì, a guastare l’appetito dell’ospite di turno, che vorrebbe abbuffarsi con il pesce cucinato da Adelaide e invece rimane impietrito di fronte a quei quadri sabbiosi, affascinanti e alieni.

E io allora che faccio? Me ne sto qui, chiuso nel mio appartamentino a pensare ai quadri di Amato, e sudo nel caldo impossibile di questo inizio giugno, invece di uscire fuori per strada e andarmi a prendere il vento in faccia con una moto, oppure la brezza di collina, dove si annidano sorgenti che rinfrescano e attirano la gente a riempire bottiglie e damigiane.
E’ mattina prestissimo. Tutto ancora tace. Tacciono le camere e i monti in lontananza, tacciono le strade viareggine dove Roberto ancora non si aggira, tacciono gli armadi al cambio di stagione, tacciono i capelli radi sulla testa, tace il mare che non si vede oltre le case, tacciono le radio e i televisori. Io mi aggiro dalla camera alla cucina con il computer portativo a tracolla, cerco di cogliere l’invisibile, provo a trascriverlo, ma niente da fare, anche il mio cervello tace. Sbadiglio, qualche immagine erotica mi attraversa la mente. Ho dormito male, ho fatto brutti sogni e ora la macchina del corpo stenta ad avviarsi, mi sa che tornerò a letto.

Amato trancia giudizi, spara a zero su tutto, l’ho già detto. Anche Cancogni non ci andava piano. Dall’alto dei suoi anni sentenziava divertito sui libri e sugli uomini:

…di Luciano Erba non saprei cosa dire. Come di Accrocca, Roversi… Paolo Volponi come narratore è bravo, ma solo nella Macchina mondiale… Poi viene l’Avanguardia: Leonetti assomiglia a un’iguana, ha il viso di un’iguana. Pagliarani era uno simpatico e modesto; ti faceva disegnare una città e poi interpretava.

Quando si è associato al Gruppo 63 è diventato di un’arroganza insopportabile. Sfoggiava tra l’altro un’enorme cravatta a farfalla. Maria Luisa Spaziani ha fatto un poemetto su Giovanna d’Arco molto bello: sostiene la tesi, per me sballata, che Giovanna non fosse una pastora (ma se da secoli è una pastora, perché lambiccarci sopra!) ma una principessa. E’ una donna imponente…

Giudici era molto bravo… Poi c’è Fernando Bandini… dopo di che si entra nella notte: la Neoavanguardia con il suo rappresentante Sanguineti. Lui non era antipatico… Di una bruttezza inenarrabile, al punto che sembrava bello, senza un dente, perché lui i denti non se li curava, se li toglieva. Con un naso mai visto. Una specie di avvoltoio, con degli occhi molto vivaci. La moglie lo trovava, mi disse lei, bellissimo…

Amato era molto amico di Cancogni. Non so cosa li legasse. Forse proprio questo piacere del giudizio tranchant, che invece mi mette a disagio, indeciso come sono, sempre timoroso di mancare di rispetto a qualcuno. Invece Amato e Cancogni si divertivano come bambini a stilare classifiche, a fare a pezzi gli autori, la storia, il mondo, arrampicandosi sui massimi sistemi.
Manlio se ne è andato per sempre. Un po’ come se ne fosse andato un nonno. Mi resta Roberto come una specie di fratello maggiore. Ma un fratello imprendibile, murato nella sua casa di Viareggio, dove non mi invita più a mangiare il pesce cucinato da Adelaide. Un fratello tutto preso dalle sue malattie, conclamate o immaginarie che siano, dal suo male di vivere, dal suo scrivere libri che ho smesso di leggere perché non li capisco più. Anche se, devo dire, forse non capisco più la poesia contemporanea, ammesso di averla mai capita, comunque la leggevo e anche con piacere. Poi, da qualche tempo, provo una specie di insofferenza quando apro un libro di poesie. Mi danno fastidio le metafore troppo ardite, i discorsi associativi, le sconnessioni logiche e grammaticali, l’oscurità. In una parola, invece di sentire la fantasia che si apre di fronte al polisenso del verso, mi annoio. Mi passerà? Tornerò a leggere versi? Anche i libri di Amato sono stati travolti da questa accidia.  

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