Capitolo II

Amato, quando lo conobbi, aveva vinto da poco il Premio Viareggio per la poesia, era il 2003. Ci davamo ancora del lei. Io non so cosa volevo fare all’epoca, cioè in che progetto volevo coinvolgerlo, forse fare dei libretti d’artista con le sue poesie, qualcosa del genere. Mi sembra che ne avevamo parlato al telefono e lui mi aveva invitato ad andare a trovarlo a Viareggio.
Amato mi attende sulla porta di casa. Esce e chiude dicendomi che possiamo fare con calma, tanto il pranzo non è ancora pronto. Camminiamo zitti per un po’, poi d’improvviso mi fa: «La vuole vedere la chiesa dell’Annunziata? E’ un posto bellissimo». Così andiamo. Sfoglio la vecchia guida di Viareggio che mi sono portato dietro, quella del Michetti, stampata nel 1893. Leggo ad alta voce: «Questa piccola chiesa… è detta della SS. Annunziata; ma veramente è dedicata a S. Pietro, ed è la più antica della città… venne costruita dal 1550 al 1560». Amato conferma.
Poi prende a parlare, tesse le lodi di questa chiesa, un luogo veramente surreale, strano, luminoso, a metà strada tra il luogo di culto e… «Lei è religioso?», mi fa. Rispondo in modo evasivo, dicendo che ho avuto un’educazione cattolica, come quasi tutti del resto. Amato continua a parlare della SS. Annunziata con parole piene di suggestione, ma io lo interrompo leggendogli di nuovo la mia guida: «Nel 1740, aumentando viepiù la popolazione, fu restaurata e ingrandita questa chiesa, che nella sua architettura non può lodarsi, perché le modanature sono sproporzionate e di poco gusto». Amato conferma. «Insomma – gli faccio – mi sta portando a vedere una chiesa brutta?»
Ma intanto siamo arrivati. Il portone è chiuso. Restiamo a scrutare la facciata col naso all’insù, ritti come stecchi sulla piazzetta, io un po’ interdetto, Amato tranquillissimo. Gli dico: «Ma non lo sapeva che era chiusa?». E lui: «Sì, sì, me lo immaginavo, è difficile che sia aperta». Poi gli squilla il cellulare: sua moglie gli chiede dove diavolo siamo finiti, il pranzo è in tavola da un pezzo. Lasciamo la SS. Annunziata (che però è dedicata a S. Pietro) a conservare la sua bellezza segreta. O forse era tutta lì, in quel portone chiuso, e non me ne sono accorto.
Io, Amato, invece di premiarlo lo avrei preso a bastonate.

Senza titolo

Il poeta Amato, ci sarà un giorno che nessuno saprà più dov’è. Già da un pezzo non vado in quella casa e al telefono lui risponde poco, fa dire che non c’è, oppure risponde di malavoglia, dice qualche frase di circostanza, poi lo senti che vuole riabbassare e infatti riabbassa la cornetta. La scusa più frequente che accampa è che deve lavorare. «Devi scrivere?», gli chiedo. «No, devo lavorare in negozio». Ora, questa storia del negozio andrebbe sfatata, perché è vero che fa il commesso nel negozio di scarpe di sua moglie Adelaide, ma nessuno ce lo vede più da mesi. Poi un giorno mi dice che sta costruendo una casa, che stanno traslocando, che vanno a stare sopra il magazzino delle scarpe. Non credo che sia vero, cioè, penso che la verità sia molto peggiore. Cioè che il poeta Amato si stia murando vivo in casa, stia chiudendo con i mattoni le porte e le finestre, e allora il resto della famiglia se ne è andata ad abitare da un’altra parte, forse davvero in un appartamento sopra il magazzino delle scarpe. E’ un tema ricorrente nella poesia di Amato la casa costruita addosso, su misura, la casa che lo protegge e lo soffoca, la casa-loculo. Ecco, credo che alla fine le fantasie abbiano preso il sopravvento, si siano concretizzate, fatte gesto e calce e mattoni. Non so se abbia viveri per campare a lungo in casa, non credo. Ma è anche vero che consuma poco, giusto un ovetto e un chicco d’uva al giorno, quindi è probabile che si estinguerà piano piano. Sarà una morte lenta, la sua, dovrebbe esserci tutto il tempo per fargli visita, perlomeno da fuori, parlarci dallo spioncino del portone, da una fessura di una finestra non completamente sigillata. Mi dispiace non vederlo più. Mi manca davvero molto, inutile negarlo.
L’ultima volta che l’ho visto – dopo essersi negato ostacolandomi l’entrata, come ho detto sopra – mi fece visitare il famigerato magazzino delle scarpe, dove Adelaide sola sa orientarsi, riunire due ciabattine estive spaiate, ritrovare un modello di decolleté che non si vende quasi più, ma forse una o due clienti lo possono ancora apprezzare. Il magazzino è un mondo subacqueo, calarcisi dentro è un’immersione in stretti corridoi dalle pareti altissime di scaffali stracolmi di scatole, rigurgitanti scarpe di ogni foggia, per ogni età. Avanzare nei corridoi è come sguazzare nella stiva di una nave in avaria, piena inesorabilmente d’acqua, sull’orlo dell’inabissamento definitivo. E se qualcosa dall’alto crollasse, se un valanga di scarpe e scatole di cartone ti rovinasse addosso, ci vorrebbero ore per ritrovarti, forse giorni. E’ sempre bene avvisare qualche autorità o qualche servizio pubblico quando ci si accinge ad entrare nel magazzino, dirlo che stiamo andando là, così, se prima di sera non siamo tornati, scatteranno le ricerche. Io l’ho visto Amato che si aggirava fra quei corridoi odorosi di cuoio e di mastice, me lo ricordo laggiù nella penombra che mi faceva strada, sottile come una statuetta etrusca, spariva e riappariva in lontananza. Pensavo a troppe cose in quei momenti: Amato come Geppetto nel ventre della balena, o come Giona; Amato negli abissi di Giulio Verne; Amato che sembra nascondere un segreto, ma forse è solo un abilissimo mistificatore.