Approfondimenti
Jazz e filosofia
a cura di Guido Michelone
Parlare di jazz e filosofia: se si intende ovviamente il jazz applicato alle musiche popolari, il discorso è lungo e impegnativo, come dimostrano le decine di ottimi libri scritti sulla storia del jazz anche di recente, in cui passano in rassegna anche la duplice idea di come da un lato il jazz si evolva nel tempo da suono folklorico localizzato a fenomeno di massa, da stile in rivolta a esperimento d’élite, dall’altro lo stesso jazz venga recepito dal pubblico quale musica da ballo, di intrattenimento, d’ascolto, di protesta, di arte, eccetera, eccetera.
Il jazz inoltre fin dagli anni Quaranta sollecita la curiosità di filosofi soprattutto europei che da Theodor W. Adorno a Julius Evola, da Jean-Paul Sartre a Michel Leiris (tutti di sinistra, tranne un ideologo del nazifascismo) tentano di coglierne l’essenza e soprattutto la novità rispetto alle tradizioni dotte (anche moderne) occidentali che vanno in tutt’altra direzione. Dunque sempre nella collana di Mimesis “La filosofia di” si trovano sei pilastri del jazz moderno-contemporaneo che, proprio durante i Sixties, esprimono forse il meglio di sé in assoluto, benché due di loro (Thelonious Monk e Miles Davis) partano già dal dopoguerra, altri due (Wayne Shorter e Han Bennink) diventino importanti nel decennio successivo, mentre i restanti (Ornette Coleman e John Coltrane) restino i massimi innovatori degli anni Sessanta, simboleggiando in toto l’intero decennio: a parlare di loro sono rispettivamente Cappelletti e Franzoso, Donà, Catalano, Ghidelli e Derrida.
Prima della filosofia attuale, è tuttavia è un approccio fortemente politico, con un rigoroso taglio sociologico a venire in aiuto al jazz e a nobilitarlo come musica importante, originale, autorevole soprattutto per la comunità afroamericana: tre libri apparsi lungo gli anni Sessanta – in un periodo in cui al jazz, dalle origini all’hard bop, sta per venir riconosciuta unanimamente la paternità di forma d’arte (mentre con il free si trasforma in credo avanguardista) – aprono nuovi orizzonti ermeneutici: lo storico marxista inglese Eric B. Hosbawn con The Jazz Scene (1961), il poeta e antropologo nero-americano Leroi Jones con The Blues People (1963) e i critici francesi, vicini allo strutturalismo, Philippe Carles e Jean-Louis Comoli con Free Jazz Black Power (1971), indicano altresì inedite forme di interpertazione critica e, forse non a caso, vengono prontamente tradotti in Italia, prestandosi a vivaci polemiche, ad esempio sulle colonne della rivista «Musica Jazz», dalle lettere al Direttore agli articoli di Alberto Rodriguez, Angelo Leonardi, Arrigo Polillo.
Il lettore tipo di questo mensile all’epoca è ancora di mentalità piccolo borghese che non accetta le sonorità estreme: filosoficamente parlando, infuria il dibattito sulla liceità del free di chiamarsi o ritenersi ancora jazz o addirittura di essere considerato musica (e non rumore). Ma i testi di Hobsbawn, Jones, Carles/Comolli di fatto risultano tre storie sociologiche (con pochi annessi filosofici) della musica dei neri, in cui si difende (o si esalta) appunto la negritudine del fare jazzistico, il ruolo primario dell’improvvisazione sonora, fra citazioni colte e interdisciplinari, sino allora poco frequenti in una critica jazz spesso autodidatta e anche poco musicologica, per non dire priva di erudizione, di fondamenti tecnici, di agganci profondi ad altre discipline artistiche. Da allora, persino in Italia, tutto cambia, sia pur lentamente: iniziano a scrivere di jazz i critici letterari (Walter Mauro) e mediologi interdisciplinari (Guido Michelone) e soprattutto i musicologi dal largo respiro culturale (Marcello Piras, Stefano Zenni, Claudio Sessa, Luca Bragalini), per arrivare ai filosofi odierni.
Dai libri ai dischi (consigliati)
Raul Catalano, La filosofia di Han Bennink. L’improvvisazione secondo un batterista
“Un viaggio nella storia del jazz europeo, a cominciare dai primi tentativi di emancipazione dal modello americano fino agli esisti più estremi della free improvisation (…). Cosa significa essere un improvvisatore prima ancora che un batterista”.
AA. VV., Instant Composer Pools 007/008, (1970)
Le sei cifre in copertina indicano il numero di catalogo di questo doppio LP che antologizza 13 brani per altrettanti sottogruppi olandesi facenti capo all’etichetta voluta dal batterista medesimo assieme a Misha Melgerberg e Willem Breuker all’insegna del radicalismo sonoro dell’improvised music.
Jacques Derrida e Ornette Coleman, Musica senza alfabeti
“L’intervista tocca i temi dall’armolodia, della democrazia, della civiltà e della civilizzazione, della globalizzazione, dell’assenza del leadership. Dell’evento e del suo dispiegarsi. (…) I due si confrontano sul concetto di lingua materna e di sé e quanto questa influenzi il modo stesso di pensare, perché del resto, si sa,m ‘prima di essere musica, la musica era soltanto parola’”.
Ornette Coleman, Friends and Neighbors: Live at Prince Street (1972)
Registrato dal vivo il 14febbraio 1970 vede iI leader via via al consueto sax alto,ma pure alla tromba e al violino, affiancato sia dalla ritmca di dieci anni prima (Ed Blackwell e Charlie Haden presenti in Free Jazz) sia da Dewey Redman (già con John Coltrane) al tenore e al clarinetto per un free al contempo intenso ed emozionale.
Giacomo D. Ghidelli, La filosofia di John Coltrane
“La filosofia di Coltrane,l’uomo che ha condotto il jazz su un pianeta dove vigeva un ordine sino a quel momento inconcepibile, viene riletta tramite una prospettiva unitaria che attraversa momenti storici di fondamentale importanza per la musica dell’epoca”.
John Coltrane, Transition (1970)
Forse il migliore tra i numerosi album pubblicati postumi, in quanto, come avverte il sottotitolo, simboleggia l’anello di transizione tra il modale di A Love Supreme e l’esperienza free di Ascension (1965) con la spinta title track di un quarto d’ora nel ‘classico’ quartetto con McCoy Tyner, Jimmy Garrison, Elvin Jones.
Massimo Donà, La filosofia di Miles Davis
“Proteso a rincorrere il libero ed esaltante, nonché metamorfico, dinamismo della natura; mosso dalla volontà di spingersi sempre più in là, verso quel ‘limite ultimo’ che almeno una cosa gli avrebbe fatto senz’altro sperimentare: il brivido dell’inaudito e di una sempre inaugurale, nonché autentica, ‘potenza poietica’”.
Miles Davis, Bitches Brew (1970)
Che altro si può ancora dire dell’album spartiacque non solo per la carriera del ‘divino’ trombettista ma soprattutto per la storia della musica cha da allora no sarà più la stessa. Qui il jazz prende dal rock non solo i ritmi e la timbrica, ma anche il modo di registrare, sovrapporre, improvvisare e produrre.
Arrigo Cappelletti e Giacomo Franzoso, La filosofia di Monk o l’incredibile ricchezza del mondo
“Il suo non è soltanto un nuovo linguaggio, per quanto profondamente radicato nella tradizione, ma un linguaggio in grado di sorprendere se stesso a ogni passo, una sorta di innovazione di secondo grado (…) accento sulla consapevole apertura al futuro”.
The Thelonious Monk Quartet, Thelonious Monk In Tokyo (1970)
Da non confondersi con il Monk In Tokyo del 1963, questo LP vede il pianista sempre in quartetto ma con una formazione inedita composta da Paul Jeffrey (tenore), Larry Ridley (contrabbasso) e Lenny McBrowne (batteria) al posto dei consueti partner, ma la sostanza non cambia, nel ribadire la ‘filosofia’ bebop.
Antonio Marangolo, Wayne Shorter e il jazz incerto
“Ha attraversato alcune delle più esaltanti fasi del jazz ed è oggi considerato uno dei più importanti sassofonisti viventi (…). La lezione di Coltrane, di cui Shorter è in un certo senso erede, le sperimentazioni free jazz, il legame con la musica brasiliana (…)”
Wayne Shorter, Moto Grosso Feio (1970)
Uscito postumo quattro anni dopo, ma registrato tra Super Nova (1969) e Odyssey Of Iska (1970) prelude forse agli interessi world latino americani del leader (sax tenore e soprano) che interpreta la celebre Vera Cruz di Milton Nascimento con una band perlopiù composta da transfughi davisiani.
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