ACCADEMIA DELLO ZIBIBBO OVVERO, DELLA FILOLOGIA DELLA MINCHIA E DELLO STICCHIO

Ho sempre subìto il fascino, già in tenera età, del suono particolare dei dialetti. Torino anni ’70, periodo delle grandi migrazioni e i dialetti oltre al torinese, attiravano la mia curiosità; napoletano, calabrese, pugliese e in ultimo il palermitano.
Questo poi ha abitato la mia quotidianità fin da bambino. Fin dal primo mio vagito, quando i miei genitori esclamarono: “Nascìu”, nacque.
“Come, nacque?”, avrò sicuramente esclamato. Sono appena nato e voi già mi vedete al passato remoto?
Credo che da lì cominciai ad imparare il dialetto che tuttora conservo in me come una sorta di reliquia: difatti se nel corso dei decenni successivi, il dialetto a Palermo ha subìto l’influsso della lingua nazionale, italianizzando sempre di più la parlata, io al contempo credo di essere diventato una sorta di custode del dialetto palermitano arcaico.

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Ed è con questa specie di responsabilità che ho cominciato a pormi i primi dubbi. Intanto la musicalità del dialetto palermitano. Ad un orecchio attento infatti, non sarà sfuggito ad esempio come un palermitano esclama: “Chi minchia vùùoi, ah?!” rispetto ad un catanese, rivale nei secoli dei secoli: “Chi bboi, ah?!”.

Lo shock più grande però l’ho avuto alle elementari, nel mio passaggio inconsapevole dal dialetto all’italiano. Quando la mitica maestra Debernardis nativa della Valtellina chiese ad ognuno di noi cosa avevamo fatto il giorno prima, io risposi: “Siamo andati dal carnezziere neh”.
“Dal carnezziere?” esclamò la maestra “Forse volevi dire, dal macellaio?”. “Si signora maestra, la mia mamma mi ha comprato la carne da mangiare”.

Ma una cosa che ancora fatico a scrollarmi di dosso parlando in italiano è l’utilizzo dei tempi nei verbi.
In tutti i vari dialetti e sotto dialetti siciliani infatti, esiste solo il passato remoto, non esistono tempi al presente, tantomeno al futuro.
Credo dipenda dalla visione della vita, già discussa in una precedente intervista allo scrittore Lucio Zinna e pubblicata su questi schermi, che ogni siciliano impara ad avere già appena nato: una vita vissuta giorno per giorno, con l’incapacità di prospettarsi al futuro.
E se l’esclamazione iniziale “Nascìu” in voi forse ha prodotto poco interesse, sicuramente la più famosa: “Ora, ora, arrivò u ferribbot”. “Adesso, adesso, arrivò il ferryboat”, vi lascerà più di un dubbio. Ma come? Se è arrivato adesso, come è possibile dire che arrivò? La vita infatti è così in Sicilia, diventa subito passato remoto.

Un aspetto importante del palermitano e siciliano Doc, è la vita affettiva, amorosa, carnale. Infiniti i duelli, in difesa dell’onore perduto o dell’onore da ritrovare.
Così come, pensate davvero che sia solo il mondo musulmano ad essere regolato da quell’insieme di regole del taglione denominato “Sharìa”.
Sapete infatti, come si traduce in dialetto siciliano “Egli litiga?”, “Iddu si sciarrìa”. Una somiglianza impressionante, se poi pensiamo che la Sicilia per secoli è stata dominata dagli arabi.

Tanti sono però ancora i dubbi non svelati che porto con me, ed è per questo che vorrei utilizzare quest’articolo come una sorta di chiamata alle armi per tutti gli studiosi e filologi del dialetto siciliano, che mi piacerebbe potere riunire in una sorta di “Accademia dello Zibibbo”!
Come è mai possibile ad esempio che in una cultura sicula così mascula, l’organo genitale femminile venga declinato al maschile: “U sticchiu”. Mentre l’organo riproduttivo maschile, venga declinato al femminile: “A minchia”?

Così come è mai possibile che a Palermo la motocicletta venga denominata “U muturi” (il motore) e in tutto il resto della Sicilia venga chiamata “’a moto” (la moto).
Ed ancora, perché mai le arancine a Palermo hanno forma di palla da bocce mentre a Catania sono a punta?

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E per concludere, come può un imprenditore del nord est d’Italia come Maurizio Zamparini, restare ancora Presidente della squadra di pallone del Palermo, dopo averla rilevata oltre vent’anni fa, averla salvata dal fallimento con pochi Spiccioli, avere intascatato milioni di Piccioli con la vendita di campioncini maturati in questi due decenni su suolo normanno e aver illuso i palermitani che la cultura d’impresa nordica, potesse riscattare e illudere le miserie del popolo siculo?