AIACE E LA LUCE

a cura di Ianus Pravo

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Sette anni fa scrissi un poemetto, dal titolo “La clarté”. Sette anni prima avevo conosciuto Avghí, che in greco vuol dire “alba”. Ero a bordo del Kámiros, in viaggio da Rodi al Pireo. Vestivo la maglia gialla e nera dell’Aek, la squadra degli esiliati di Smirne. Era la squadra di Avghí. Passai indenne attraverso la sua malattia, Avghí morì di AIDS. E io non c’ero.

Non so quale corrente segreta mise in contatto il mio ricordo di Avghí con la lettura di una bellissima pagina di Denis Diderot, nella sua Lettera sui sordomuti, in cui il filosofo francese parla dei versi 645-647 del Canto XVII dell’Iliade. Diderot polemizza con le traduzioni di Longino, Boileau e La Motte delle parole di Aiace: “Gran Dio, caccia la notte che ci copre gli occhi, / e lotta contro di noi alla luce dei cieli” (Boileau), “Gran Dio, ridacci la luce e lotta contro di noi” (La Motte). Per Diderot era un errore mettere in bocca ad Aiace parole di sfida a Zeus: nei versi dell’Iliade solo c’è un eroe disposto a morire, se è la volontà di Zeus, a cui Aiace implora null’altro che la grazia di morire combattendo. “Grand Dieu, chassez la nuit qui nous couvre les yeux, / Et que nous périssions à la clarté des cieux”, traduce Diderot: O padre Zeus, alza la notte dai nostri occhi, e che possiamo morire alla luce del cielo.

La notte mi ha sempre passato un salario, con cui ho pagato il prezzo dell’alba. Quaesivit caelo lucem, ingemuitque reperta (Virgilio, Eneide, IV, v. 692). Cercò nel cielo la luce e gemette per averla incontrata. Quando Aiace si darà la morte, un fiore rosso sorgerà dalla terra, e nei suoi petali porterà scritta la sillaba Ai, le iniziali del suo nome, un nome ridotto a un gemito (Pausania I, 35, 4).

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(Fotografia di “Aiace preparando la sua morte”, pittura su cratere di figure nere attribuito a Exekias, c. 540 a. C., Museo delle Belle Arti e di Archeolgia di Bologna).

Ho sempre avuto due immagini chiave: bambino, da un vecchio libro d’arte greca mi ero scelto, per la mia vita, due raffigurazioni del suicidio di Aiace, La prima è una pittura di figure nere che appare in un cratere del VI secolo A. C., attribuita a Exekias. Quando la vidi, avevo undici anni, non sapevo che in essa era rappresentata la preparazione di un suicidio: pensavo narrasse l’allestimento di una trappola letale per un nemico. Aiace è in ginocchio conficcando l’impugnatura della sua spada in un monticolo di terra. Una palma, come piegata dal vento, segue la curva della spina dorsale di Aiace. Il corpo dell’eroe appare molto pesante, due piedi spoporzionatamente piccoli lo sostengono a malapena. Lo squilibrio tra le parti del corpo ci dice che il corpo cadrà ineluttabilmente sopra la punta dell’arma. (Perché avevo pensato, da bambino, che la deformazione del corpo, la precarietà dell’equilibrio, trovasse una causa nella cura della violenza al nemico?). Le dimensioni fisiche del corpo, così lontane dal canone di bellezza di Policleto, manifestano anche l’instabilità mentale del personaggio, impazzito per opera di Atena. Alla destra di Aiace, catturando il suo sguardo, ci sono un casco e uno scudo, forse l’armatura di Achille. Nel centro dello scudo è dipinta la testa bianca della Medusa.

Qualche anno più tardi, a quest’opera di Exekias affiancai l’immagine della morte di Aiace che appare in un sigillo corinzio dell’VIII secolo A. C., dove si vede il corpo nudo di Aiace che cade sopra la spada. I talloni sollevati, la tensione dei polpacci e delle cosce e la curva della schiena che segue il contorno circolare del sigillo, le mani aperte e distese che giungono quasi a toccare i piedi, descrivono lo squilibrio che nell’Aiace di Exekias era reso con la deformazione del corpo. La narrazione, nella prima immagine, sta all’atto, della seconda, come la cura della morte sta al suo proprio dramma.

Il poemetto “La clarté” ha sentito pochi occhi posarsi sul suo ventre: espone adesso il suo ventre ad altri occhi. Quaesivit caelo lucem.

LA CLARTÉ

Oh la clarté.
La clarté.
Oh la clarté.
Der Trübung durch Helles.
Voix de oh la larme.
Sono un vecchio che lacrima
orina sulle mani per scaldarle.
Ho vent’anni e quattro tacche sul calcio della pistola
possiedo quattro servi quattro morti come quattro evangelisti del sorriso.
Sono la sigaretta
ardendo
come un’aquila sulla preda.
A la luz del cigarro. A la luz del cigarro.
Il fumo per il Dio dalle aperte nari.
Pro aris et focis le dita ardenti.
Je suis ta viande nue oh.
La carne che vai a seppellire
la cera che ora ami.

Sono giunti i frutti del silenzio e l’azzurro
ne asciuga la polpa e la pietà impura che mi apre le palpebre.
Pioggia gialla pioggia gialla più torrida della bocca, e
sulla conca del volto la vertigine del frutto azzurro
che non ha immagine e non ha senso e non ha l’ira
non ha la purezza di ciò che non esiste l’ho chiamato
all’esistenza e l’ho
abbandonato alla sua crudeltà,
un albero senza radici, Sozan Kyonin, foglie d’acqua foglie gialle,
più in là l’azzurro, non una sola macchia nella luce, Tsugen.
Ah caminante, ah confusión de párpados.

Ho conosciuto Avghí K. a bordo del Kámiros mentre ero in viaggio da Rodi al Pireo,
ecco nascono i ricordi di un Diagóras morto, morto di lei, morto poi l’uomo
l’uomo che cerca mentalmente tra due fermate metropolitane, Monastiráki e Molitor,
e poi un cappello, solo un cappello, dov’era, a Praga? in Zivkov?
Paolo Larcher spogliandosi per vomitare per vomitare nudi
nudi a risputare l’eroina il sangue
sul ventre bianco di Avghí che nominava le nostre bocche
(Dich nur
neigt zu mir hin,
was du geworfen).

womb
in english is a rhyme to tomb
corpo che possiede qualità
di disincarnazione e, congiunto
al denaro autoptico nell’Unto
Amante, ingiuria la libertà
dei riti e dei fieli, lo stilema
è calmo stilema in gestualità
al morbo, il corpo in nudità e aperto
sul portone, docile e servile, certo del biancore,
osceno, sincerità
e già
le ferite non risplendono
oscillando fredda la scevra figura
in mani svogliatamente numinose,
la tua scarpa scalzata, il gas di un’auto in volute
dense nell’acquarugiola.

Per potere posso, ma per capire no,
Kratu (sanscrito) intelligenza Krátos forza che lega
e né la più alta delle aquile il più profondo dei cadaveri
pur lento lento lento si avventi fuori dalle radici che gli scorrono
sulle ossa e le fanno splendere come un’aquila sulla
preda serena come uno spirito di ferita e di tempo
non esse praecisa non esse praecisa non esse
dei nomi che gridano sui corpi,
nel lento verde, il caule
arcuato in un ventaglio laminare dalla vetta delle palme a sopportare
le esigue fibrillazioni per una brama di respiro ed erba quieta:
caute fiamme nell’oziato talento dello spleen,
Sabra e Chatila nell’ottantadue e gli occhi di Jean Genet,
ricordo il corpo morto e il corpo amato
prendono in sé le medesime pose
spezzate a un’arresa oscenità. Metá ( in greco) ma non dopo,
insieme in mezzo inoltre.
L’amore è osceno (l’osceno è ciò che rimane negli occhi
come una pioggia di sale sodomitico dopo la vendita della visione).
L’amore osceno è una transazione tra la scena e la luce,
tra l’immagine e l’occhio, ob scaenam Virginem.

Disporre a nudità il possesso
ammaestra a dormire il sonno lugubre
di chi, tuttavia, non ha stanchezza,
la carne transitata a deporsi
in un lavacro d’ocelli tra
le pleiadi dei fiati,
i corpi smorzati nel sonno,
aperti e osceni come nella morte,
nel lungo spillo che li fissa
eterni, emostatici, in un cielo di
nudità.

(Metá, far crescere la morte con lo sguardo).
In cambio della scena oh la larme un’immagine oscura
una non immagine è la transazione del vedere e l’osceno ne è il compenso.
Morti come luci di bellezza sul Dio
morti come luci di bellezza sul Dio
morti come luci di bellezza sul Dio
morti come luci di bellezza sul Dio
morti come luci di bellezza sul Dio
morti come luci di bellezza sul Dio
morti come luci
di lentezza e bellezza sul Dio.

Scatta la foto, Cartier-Bresson, ma nessuna sommità pontificale o
pontifecale tra l’immagine e l’occhio, tutti i ponti
di Londra o di Mostar sono crollati
e la scomparsa liba le sue labbra sulle lame ciliari
e l’occhio sbatte la palpebra contro il compenso della visione venduta
contro il corpo osceno dell’amore.
Il frutto dell’aquila è maturato sul ventre,
bianco come la ferita e il tempo
azzurro come la mano
la mano azzurra che conduce al sonno
all’inverno ardente che riunisce le perfezioni del calice e della latrina
le calcinazioni del tabacco sugli animali del limite
il limite perfetto che attraversa le ossa.
Il frutto dell’aquila è inapparente e si alza sugli occhi
come una voce incerta dall’oscurità che la staglia
nella traiettoria del suo venir meno.
A la luz del cigarro bellezza insufficienza
d’immagine la pornografia di un morto che vedi
la Vénus des Médicis et la Vénus des médecins che vedi
nel tempestoso Egeo in grembo a Teti
nell’acquietato lembo di terra nel sole dell’Auschwitz di Sabra
come il più lento e il più disfatto coito col dio che vedi
con i tuoi occhi senza vederlo.

Domani domani da Shamash
avremo una buona nuova, la maschera di Huwawa
ha rifatto la bocca, la chirurgia dell’urlo ha fatto
della bocca un urlo di pietra,
una montagna vuota in cui annida la mano di cera,
la mano a pioggia di cera
e questa pioggia gialla questa
pioggia mancata da ogni aurora, che lava
la carne lasciandola intatta, cosí
cosí votata all’insepoltura
al non ricordo Pizia
je suis ta viande nue oh
la cera che ora ami.