Amy e noi

Ho visto il film di Asif Kapadia su Amy Winehouse e c’è poco da aggiungere a quello che il lungometraggio mostra benissimo. La struttura è perfetta; le soluzioni (le interviste informali fuori campo, il filo conduttore assegnato ai testi delle canzoni che lei stessa scriveva e la qualità intrinseca dei filmati e delle foto) funzionano come un orologio. La mano nel calibrare il peso specifico degli elementi della sfortunata vicenda della protagonista è fermissima; il taglio asciutto riservato ai diversi personaggi ci offre la possibilità di indagare empaticamente le cose e mettere in gioco la nostra sensibilità, se vogliamo riordinare i fatti.
L’immagine che avevamo della Winehouse prima di entrare in sala è quella che ci siamo fatti dalle pagine dei tabloid e dai servizi televisivi: una cantante strafottente, dall’immenso talento ma con poco sale in zucca; una deficiente che si è divertita a sfidare i propri limiti fino all’autodistruzione.
Usciamo dalla sala con un quadro completamente rovesciato: insieme alla scossa emotiva, il regista ci consegna la possibilità di farci carico di una risposta, lasciandoci lo spazio per l’assunzione di una responsabilità, al pari dei media, delle persone a lei care e di coloro che hanno avuto un ruolo, nel bene e nel male, nella costruzione del suo successo (e forse aveva ragione Bianciardi dicendo che il successo è solo il participio passato di succedere).

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Ci si trova costretti a fare i conti con molte cose, così evidenti da non rischiare alcuna retorica. L’incapacità dei media nel parlare di musica è evidente – ma forse potremmo applicarlo a qualunque altra forma d’arte. Ciò che conta è guardare l’artista come fenomeno da analizzare, depredarlo di dettagli della vita personale affidandoli a giudizi manipolatori che, per loro natura, non hanno interesse a indagare le ragioni del talento o rendere trasparente il quadro generale della personalità. In questo senso, sono da buttare nel cesso le biografie pubblicate, carenti di un insieme narrativo, quando non tendenziose e utili semmai a ripulire la propria immagine fallimentare, come nel caso di quella scritta da Mitchel Winehouse. Mitch, genitore prima assente e poi onnipresente e invasivo, seduto alla sontuosa tavola imbandita attorno alla figura sempre più esile (e, paradossalmente, bulimica) di Amy.
Amy: il film, non solo nel titolo, la chiama sempre per nome, nel senso più profondo del termine. Fin dalle prime immagini di adolescente dall’indole fragile e dagli occhi pieni di paura che ne preannunciano la fine. I documenti che lei stessa girava sembrano, addirittura, l’involontaria sceneggiatura di un tragico musical autobiografico. Così come i testi, scritti da una persona che pare aver già visto chiaramente il suo destino.

Amy è la più fragile di tutti e nessuno (tranne i pochissimi amici di Ealing) sembra accorgersene. Matrice del suo talento, sorta di catarsi o di terapia attraverso cui riusciva a elaborare emozioni difficili. Una fragilità sfruttata in modo ossessivo da veri e propri avvoltoi dalle sembianze umane, aspetto sempre più lampante, che senz’altro ha rafforzato in lei il desiderio di autodistruzione. Mitch, il marito Blake, i media, l’industria discografica, i manager: quasi nessuno qui può essere assolto.
Ma non è questo che ci interessa, perché anche quando industria, media e pubblico, voltano la faccia agli artisti con cinica indifferenza, riescono a uccidere; Nick Drake, un esempio su tutti.

Non c’è però bisogno di scomodare Shakespeare: succedeva tutto mentre ci formavamo un’opinione quando le note e ridicole peripezie della cantante (così venivano etichettate) facevano gola ai tabloid o alle TV. In fondo, è sufficiente fagocitare e consumare le informazioni, le canzoni e i loro testi, i concerti, le foto di una donna seminuda che esce di casa devastata dalla droga e dall’alcol, o che si accascia su un palco mentre la gente le chiede indietro i soldi, senza farsi alcuna domanda, per prendere parte al circo.

È questo il livello che nel film ci permette di osservare noi stessi. A guardare queste cose c’eravamo noi. Ci siamo noi, ogni volta che succedono. La sola azione spontanea che ci viene, dopo aver consumato senza spirito di osservazione, è allora quella di giudicare. Ma non accade lo stesso quando la persona fragile è il collega di lavoro, la barista, il compagno di università? E ci sarà mai per loro la possibilità di consegnare le loro storie alla verità, come accaduto per Amy? La tragicità del film sta, forse, nel rendersi conto che siamo disarmati davanti all’abisso di chiunque, ma che il ruolo empatico di chi osserva ha una funzione salvifica, ed è meglio che ce l’abbia prima, che post mortem.
I nostri occhi attenti e il nostro cuore aperto, al pari del talento di un grande regista.

E’ trascorsa la giusta distanza per guardare alla storia di Amy Winehouse con lucidità critica e abbandonare quell’immagine stretta e falsata in cui l’ha relegata la nostra necessità di giudicare qualunque cosa, per consumarla e poi passare ad altro.
Amy era una ragazza come noi, cresciuta in un quartiere a nord di Londra. Aveva un talento cristallino e la voglia di cantare il jazz al Trash o al Camden Café. Ha avuto degli amici veri e un’infanzia senza affetto.
Il suo disperato bisogno di amore le ha accorciato la vita. Rendendola immortale.