Recensioni
Approdando su spiagge sceme
Pensieri disordinati sulla poesia dello sguardo di Giulia Fuso
a cura di Pier Angelo Cantù
Scriveva Walter Benjamin in chiusura al saggio “Il narratore, considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov” prendendo spunto da una citazione di Paul Valery, che l’opera dell’artista consiste in figure ricamate in seta, nel gesto in cui anima, occhio e mano sono collocati in un medesimo nesso; aggiungendo mirabilmente di suo pugno che il rapporto tra il narratore e la sua materia diventa, pertanto, gesto artigianale che lavora in modo solido, unico e irripetibile la materia prima delle esperienze, proprie e altrui. Congedandoci da Benjamin e da Valery, potremmo dire con parole nostre che questo slittamento della figura dell’artista in quella di artigiano ben si addice alla poesia di Giulia Fuso. Nel gesto artigianale ripetuto dello sguardo, Giulia trasforma le esperienze e le immagini contingenti del suo vissuto in piccoli resoconti poetici. Ciò che l’autrice vede e annota, nel semplice vivere, si fissa pertanto come opera solida, unica e irripetibile, capace di ridefinire il valore stesso della quotidianità. Le figure ricamate in seta di Giulia beneficiano proprio della ripetitività dei gesti quasi nascosti dell’artigiano, nello stesso modo in cui un abile pasticcere arriva a misurare con estrema precisione gli ingredienti attraverso l’esperienza e non più col bilancino. Le parole che Giulia trova e colloca, nel suo grazioso sparpagliato ordine, non sono altro che un vocabolario che si amplia, nell’evoluzione ripetuta di sguardo ed esperienza. Le brevi poesie di Giulia ci fanno muovere tra ingredienti che nel nostro quotidiano non saremmo tentati di considerare poesia. Nel ricamo che ne fa l’autrice, dentifrici, lavandini, mele o tetrapak sfornano il più sublime dei dolci (restando nella metafora del pasticcere), dal profumo così fragrante che non potrà che rimanere a lungo nelle narici della nostra memoria. Sarebbe poesia buona da mangiare, in effetti, e comunque non basta leggerla: uno sguardo decentrato ci permetterà di assimilarla al meglio, godendo delle asimmetrie che Giulia mette in poesia e tra queste e l’occhio, il nostro, che le interpreta. L’occhio di un lettore che, a questo livello di fruizione, è invitato a praticarla a sua volta, la poesia.
Intanto, in un panorama come quello attuale in cui, complice la confusione di identità di molti editori, una certa poesia sta vivendo un eccesso di illuminazione artificiale (i cui riflettori sono tenuti accesi anche dai poeti su loro stessi, in quel supermarket delle emozioni che sono diventati i social network), il ricamo naturale di Giulia nasce, vive e si diffonde in un luogo sacro e volutamente appartato, rispondendo all’esigenza personale di evitare, se possibile, di dover dare spiegazioni di significato e senso a una platea indagatrice di persone non scelte. “La maggior parte delle persone che scrive – mi dice – lo fa proprio perché non in grado di raccontarsi. Io stessa non saprei dirti perché uso un termine piuttosto che un altro. Vivo la poesia come un processo naturale, esattamente come mangio, dormo, vado al lavoro”.
Fiorista nella vita quotidiana che si dipana a Perugia, abituata a tenere le mani nella terra (mani che ama molto curare), Giulia Fuso è autrice di due raccolte pubblicate a breve distanza l’una dall’altra, visibilmente differenti nello stile, che resta però ben riconoscibile. La prima, “E dentro luccica” (Miraggi Edizioni, pag. 102, 2018) è una teoria di sequenze disarmanti, tanto le parole fissate sono ingenuamente ed efficacemente vere e i cui temi di fondo, spesso dolorosi, si intravedono in filigrana. Non c’è spazio per brezze e tramonti: così leggiamo in ¾:
Mi sono formata zoppa
non appoggio, sono mancante
una frazione i miei arti (3/4).
Motivo per soppesarmi alla tua destra
guardando ciò che porti addosso,
liberandoti dagli scontrini di ieri
elenco di cose già mangiate
e di un compostaggio estivo
che non sarà mai più fertile.
La seconda raccolta, “Tu non dismetti mai le cose” (Eretica, pagg.53, 2019) mantiene salda la naturalezza evolvendo solo l’effetto straniante delle immagini create: affiorano rimandi personalissimi (di sé o di persone con cui si è condiviso un percorso) e vengono evocati strati di profondità vissuta che lasciano il lettore fermo sulla soglia, in attesa di nuovi indizi, magari svelati qualche pagina più avanti. Indizi, naturalmente, intesi come agganci ai propri strati dentro cui potersi specchiare, anche solo di sfuggita.
Considera me
in questi giorni scavati
dove ti vorrei a portata di parola
e nel pane quotidiano che bada il corpo
e scende nei fianchi;
Giù. Spazio neutro,
dove ci concediamo
margini di miglioramento.
(Take away)
I due libri cristallizzano una diversa fase della vita personale e di artigiana della scrittura dell’autrice, li lega il medesimo salutare senso di inconsapevolezza; come se nessuna ricercata organizzazione di stile si sia messa a guidare la mano di Giulia mentre scrive, lasciandoci il respiro irregolare delle cose non mediate, ed è questo lo stile. Ne beneficia l’andatura, sempre riconoscibile e piuttosto a margine delle impalcature più classiche che la poesia ha codificato per farsi riconoscere come tale, nel bene e nel male. Proprio qui, forse, risiede la difficoltà di Giulia nel raccontarsi verbalmente e nel dover cercare, senza sentirne il bisogno, una qualche spiegazione alle parole capitate sul foglio in una tale e aggraziata armonia. Che peraltro, per l’autrice, mantengono a distanza di tempo l’effetto sorgivo originario, mentre al lettore consegnano misteri sempre diversi, in bilico tra realtà e abbandono onirico.
E’ già forse un miracolo avere tra le mani queste due raccolte, ci pare di capire parlando con Giulia, che ha al momento sospeso le pubblicazioni per consolidare una sua identità e potersi riconoscere con precisione nella collocazione degli inediti già scritti una volta pubblicati (alcuni dei quali hanno comunque trovato una loro naturale vita pubblica). Abbiamo avuto la fortuna di leggerli, questi inediti senza titoli, trovando una voce ancora più matura e un vocabolario più ampio: parole che però non rinunciano a “ballare d’architettura”, citando Frank Zappa. Alle nuove poesie di Giulia ci siamo consegnati leggendole rapidamente, tutte insieme, andando oltre il singolo quadretto. Nel gioco di unire i puntini per trovare immagini più leggibili, un acquerello che ci appare all’istante magari troppo tenue riprenderà colore se collegato alle parole in libertà che leggeremo qualche pagina più avanti, collocate in un’altra stanza, o sussurrate in un altro dormiveglia.
“Sono la prima a rendermi conto che alcune descrizioni che utilizzo possano sembrare alquanto discordanti e che quindi necessitino di una spiegazione – mi confida Giulia – ma al tempo stesso per me sono così chiare che non saprei proprio quali spiegazioni dare. Ti faccio un esempio: in una poesia ancora inedita scrivo di spiagge sceme dove passa il retino per le vongole. Mi rendo conto che l’aggettivo sceme associato a una spiaggia possa sembrare incongruente, ma io su quelle spiagge sceme ci ho camminato realmente, le ho viste, le ho vissute, quindi non saprei descriverle in altro modo”. Alle parole di Giulia aggiungo che l’uso che fa degli aggettivi è sempre strabiliante e, laddove appaiono più stranianti, si rivelano estremamente funzionali alla definizione di una scena. Come in una polaroid, non cerchiamo la perfezione tecnica: a rendere unica l’immagine sarà lo sguardo di chi ha scattato.
Vado in bambola
per la bottiglia vuota,
ho bevuto tutto l’etilico per mandarti messaggi
che poi approdano
su spiagge sceme
dove periodicamente passa
il retino per le vongole.
Ci siamo chiesti – e lo abbiamo chiesto all’autrice – dove finisce ciò che non è stato annotato sotto lo stretto sguardo di Giulia, ma che in qualche modo ritorna in scena nella sua poesia insinuandosi tra una parola e l’altra come elemento che contribuisce a generare lo spazio tangibile in cui un lettore può collocare qualcosa di sé, sentendosi quasi ascoltato. “Io mi sento una persona profondamente scissa – dice – che non riesce a raggiungere ciò a cui tende perché si pone tanti limiti e freni. E’ proprio qui che, secondo me, la mia scrittura diventa interessante: nell’incastro tra ciò che vedo e ciò che è frutto della mia potentissima immaginazione. E’ nella scrittura che riesco a trovare un equilibrio tra ciò che vorrei fare o essere e ciò che riesco effettivamente a fare o essere ed è in questo incastro che si sistemano le parole che descrivono cose che in realtà non ho avuto sotto il mio sguardo diretto. Sento di aver modificato qualcosa nel mio stile, ma forse sono io che vivo le cose che poi scrivo in maniera diversa. Ciò che vivo lo interiorizzo rapidamente, ed è stato un bene aver pubblicato altrettanto rapidamente i primi due libri. Ora mi sto tenendo in pancia gli inediti, in attesa di trovare loro la giusta collocazione”.
Probabilmente, aggiungiamo, è anche il motivo per cui molto difficilmente Giulia rimaneggia le cose che scrive per comporle poi in modo differente, magari più accurato; peraltro un brutto vizio in cui, ne sono personalmente certo, alcuni autori e autrici disperdono molto della loro originalità. Così come non si possono piantare nuovamente dei fiori recisi nell’attimo stagionale in cui hanno sprigionato tutta la loro bellezza (semmai preservare il bulbo, toglierlo dal gelo della terra, perché così darà origine a nuovi fiori altrettanto belli), la luminosità di una poesia viene meno nell’atto di levigarla troppo, magari per compiacere anche inconsapevolmente un editore o una certa fetta di pubblico pagante.
La scissione accennata da Giulia, visibile nel titolo della prima raccolta, che comincia con una congiunzione quasi a rimarcare che c’è un altrove di lei invisibile agli occhi e che sta “fuori” o “prima” da ciò che è stato messo nel libro, e che, dentro, luccica, sta venendo meno nell’atto stesso di scrivere, che appare più unitario. “Non si scrive ciò che sai ma cominci a saperlo scrivendo” annotava in un articolo Milo De Angelis interrogandosi su cosa sia poesia e cosa no. Giulia Fuso lo direbbe con questo inedito, con cui chiudiamo la nostra riflessione sul suo prezioso ricamo artigianale.
Ieri sera era solo
la conta dei passeri
additati con l’indice
col cranio a terra, per noia
mentre spurga l’occhio
con il cipresso dentro
e niente necessita
di ulteriori spiegazioni.
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