Hannah Arendt

a cura di Vittorio Alfieri

Nei giorni che viene trasmessa la serie tv “M. Il figlio del secolo” e soprattutto di quello della memoria, la mente corre inevitabilmente a Hannah Arendt filosofa di origini ebraiche, donna intellettualmente versatile, anche storica e politologa tedesca naturalizzata statunitense.

Per ragioni familiari si trasferì a Königsberg, città natale del molto stimato Immanuel Kant.

Fu costretta ad abbandonare la Germania per le persecuzioni naziste.

Molto conosciuta grazie al saggio “La banalità del male”, ‘generato’ dal diario scritto da inviata del settimanale The New Yorker, per il processo ad Adolf Eichmann condannato a morte per genocidio del popolo ebraico.

La sua attività filosofica indagò l’agire dell’uomo rispetto, come già menzionato alla banalità del male, al totalitarismo e alla crisi della modernità.

In “Vita activa. La condizione umana”, la modernità è un progressivo deperimento della humana conditio è una limitazione delle possibilità. Il fare umano -la vita attiva- si esplica attraverso tre elementi fondamentali, che corrispondono alle tre fasi dell’uomo e della donna. Attività operativa: “homo faber”, essa si dedica alla costruzione di oggetti duraturi, che contribuiscano alla stabilità del benessere umano, nella contemporaneità il consumismo e il profitto hanno imposto che i manufatti abbiano un tempo molto ridotto.

Con la rivoluzione scientifica del Seicento e l’avvento del progresso grazie alla tecnica l’umanità produce oggetti non naturali. Ma in ogni costruzione è implicito un pericoloso elemento di “violazione e violenza”: l’homo faber è “sempre stato un distruttore della natura”, dettaglio non trascurabile l’opera ha 67 anni, nel suo genere premonitrice.

Dalla fine della polis l’agire è stato sospeso, l’individuo si è concentrato sulla sfera privata e l’agire politico è stato sostituito dal lavorare. Il lavoro è un’attività che restringe la personalità: nel lavoro l’uomo “non è insieme con il mondo, né con altre persone, ma solo con il proprio corpo”.

Con la seconda fase l’attività lavorativa genera “animal laborans”. Essa è l’evoluzione del bisogno di sopravvivenza dell’umanità. L’homo faber è stato sostituito dal mero “animal laborans”, un essere la cui attività ha il solo scopo di conservare la vita soddisfacendo i bisogni biologici. Nella polis greca, prodomo degli Stati che hanno come “lighthouse” l’uguaglianza, queste mansioni venivano svolte dagli schiavi, in modo da consentire agli uomini liberi di dedicarsi alle superiori attività della vita pubblica, cioè alla politica, intesa in senso ampio.

Infine l’attività dell’agire dell’essere politico, corrisponde al perduto agire politico.

Nel mondo contemporaneo è diventata impossibile la forma più nobile di attività umana: l’autentica “vita activa” consiste infatti nell’agire politico e nell’interazione comunicativa pubblica fra i cittadini liberi, come nella polis. La sparizione della vera dimensione politica ha per la condizione umana conseguenze disperate, l’attività si restringe al solo “fare” inteso come produzione di oggetti. L’uomo però è un animale politico, “politikòn zôon” come descritto nel testo “Politica” di Aristotele. La politica dell’uomo è una qualità positiva e naturale, dimenticata.

Idea personale: tutto è politica, perché è scegliere, lo è andare in pizzeria invece del cinema oppure recarsi al ristorante e non a teatro. Poi Dio, tramite il figlio Gesù Cristo, non faceva il politico e politica? Alcuni esempi: la cacciata dei mercanti dal tempio, la condanna di ipocrisia ai farisei, quando salvò l’adultera dalla lapidazione.

E’ chiaro che i vangeli siano impregnati di politica, tutto è politica.

I tempi che si vivono lo confermano, necessita che il genere umano torni ad occupare lo spazio politico, che anche con l’aiuto dell’attività filosofica, diventi il luogo di tutti.