nulla è frutto del caso

a cura di Vittorio Alfieri

Caso o Necessità. Il primo, nel pensiero filosofico, si manifesta non considerando cause ed effetti, ma come esigenza dell’ideale immaginario di libertà di fronte al sistema dell’indeterminata, appunto, necessità. Nella storia della filosofia, il concetto del caso è indagato principalmente in relazione al significato soggettivistico, come incapacità dell’essere umano di conoscere le cause di un evento e, in ragione di ciò, un’apparenza derivante da una mera ignoranza della causa. Oppure, in senso oggettivistico, come fatto che non ha nessuna causa oggettiva, oppure è prodotto dell’intersecarsi di serie causali diverse e indipendenti.

Nella concezione soggettivistica, interpretazione dell’essere della realtà, gli stoici, assertori di un Universo perfettamente determinato in cui tutto accade per un’assoluta necessità razionale, così come i filosofi cristiani convinti dell’esistenza di un Dio provvidente, vedono il caso solamente come l’incapacità della ragione umana di trovare le cause di un fenomeno.

Analoga concezione ritorna in Spinoza, che vede tutta la realtà come frutto di una serrata concatenazione di cause: il caso è il risultato di una carenza della nostra conoscenza, che non ha saputo o potuto prevedere un dato risultato a partire da una determinata situazione.

Ugualmente, Leibniz, distinguendo fra l’accidentale del sapere umano e la necessità di quello divino, fa del caso un’espressione della prima e imperfetta forma di conoscenza.

Hume nega il principio di causalità, la relazione causa-effetto è il prodotto dell’abitudine maturata in seguito alla ripetuta osservazione di una certa successione tra i fenomeni. Quando in tale successione le esperienze positive sono numericamente uguali o inferiori a quelle negative, allora si parla di caso; esso, dunque, consiste nell’equipollenza delle probabilità che non permette previsioni. Proprio questa idea dello scozzese Hume lascia perplesso il sottoscritto, perché essendo rimasto tetraplegico incompleto a vita, durante il tragitto casa-lavoro-casa, si è stato investito da un’auto. E qui subentra la necessità: bisogna pur lavorare per vivere, e lo confermano le 1.041 anime vittime sul lavoro solo dell’anno scorso, senza che si possa parlare di responsabilità, la quale è stabilita dal diritto positivo, il quale viene indagato dalla speculazione stessa. Ma è comprensibile questa visione del tangibile, poiché solo da un decennio era nata la rivoluzione industriale e la stampa aveva dei limiti dovuti allo spaziotemporale nel divulgarla.

E proprio Isaac Newton, anche filosofo, nega l’esistenza del caso: “La proposizione ‘nulla avviene per un cieco caso -in mundo non datur casus-‘.

In età contemporanea, prima Kant sostiene che: ‘Non datur hiatus, non datur saltus, non datur casus, non datur fatum’, poi Bergson attribuisce al fato un’illusione puramente soggettiva, decisa dalla sorpresa di rinvenire un ordine meccanico, nel quale ci si attendeva piuttosto un ordine finalistico o spirituale.

La necessità è una nozione che Parmenide ravvisa nella mitica figura di Ananke o di Dike ‘giustizia’ nel senso di suprema legge cosmica, che regge l’Universo, ipostatizzando la sua scoperta della necessità logica, onde la pura asserzione dell’essere esclude ogni asserzione di non essere. E dall’antitesi parmenidea della realtà vera e necessaria dell’ente alla realtà ‘secondo opinione’ del mondo empirico deriva l’idea che la necessità sia un attributo costitutivo della realtà degna di questo nome, ciò che veramente è non potendo non essere.

A partire dal 17° secolo, con la rivoluzione scientifica, per Cartesio il principio ricomprende sotto di sé tutti i fenomeni della materia estesa, compresi quelli organici, mentre con Hobbes già si delinea il tentativo di spiegare su questa base gli stessi movimenti della psiche, ossia della cartesiana sostanza pensante, secondo la prospettiva che sarà adottata nel secolo 18° dai materialisti francesi.

Schopenhauer, ritenendo illusoria la libertà umana, ridefinisce l’esigenza sulla scorta della sua analisi del principio di ragion sufficiente, giungendo a distinguerne quattro forme: la prima fondata sulla causalità, la seconda si basa sui giudizi analitici, la terza matematica, fondata sulle condizioni a cui sono sottoposte le immagini in quanto si manifestano nello spazio e nel tempo, e la quarta pratica si riferisce ai motivi che determinano l’azione. In ontologia, la filosofia analitica è la teoria che stabilisce i criteri di esistenza di determinate entità, quindi anche della necessità.

Nel secolo scorso, Wittgenstein riflette sull’urgenza in termini tautologici che coincide con quella di verità logica.

In conclusione, nulla è frutto del caso ma è generato dalla necessità dell’essere umano.