Approfondimenti
Philip Glass – La musica per il cinema (I)
Philip Glass, nato a Baltimora il 31 gennaio 1937 da molti studiosi è ritenuto il maggior compositore vivente di musica classica contemporaneo o perlomeno uno degli artisti più in fluenti nell’ultimo mezzo secolo grazie a una corrente – il Minimalismo – di propria invenzione, assieme a un manopolo di coraggiosi (Steve Reich in primis), attorno agli anni Sessanta, che rigettano la sperimentazione elettronica e la post-dodecafonia postweberniana allora imperanti, soprattutto a livello politico. A un certo punto Glass ha un’audience di massa, simile a quelle del pop o del rock, grazie a un film documentario dall’enorme imprevisto successo mondiale: saranno poi tre le pellicole realizzate assieme al regista Godfrey Reggio a cavallo tra il 1983 e il 2003 dal contenuto ispirato alle profezie dei nativi americani Hopi: la cosiddetta ‘Trilogia Qatsi’ verrà addirittura portata in tournée dallo stesso Glass, che assieme a una band di tastieristi suona sotto il grande schermo dove scorrono le iperrealistiche immagini; anche in Italia giunge il live dell’ensemble che performa le musiche direttamente, con la prima esecuzione integrale per la rassegna Settembre Musica 2005 a Torino, presso il Lingotto più precisamente nell’avvenieristico Auditorium “Giovanni Agnelli” progettato dall’architetto Renzo Piano.
In realtà, se si parla di pop e rock, la curiosità di Philip verso le sonorità giovanili si manifesta anche prima, quando per esempio nel 1980 produce l’album omonimo del quintetto newyorchese Polyrock o quando viene attratto dai dischi della cosiddetta ‘trilogia berlinese’, composta da Low (1977), Heroes (1977), Lodger (1979), frutto del sodalizio tra David Bowie e Brian Eno. I temi di questi long playing verranno adottati, da Glass, per le tre omonime sinfonie rispettivamente nel 1992, 1996, 2018. È comunque il cinema a dargli una visibilità mediatica e popolare di tipo appunto pop, senza mai tradire il proprio credo espressivo, pur adattandolo intelligentemente alle necessità espressive di ciascuno dei trentatré film cui lavora tra il 1982 e il 2018 (a cui va aggiunta la serie TV Loop del 2000).
Per raccontare l’importante contributo che Glass fornisce anche alla storia della musica filmica si può partire dal 15 settembre 2005, al citato Lingotto torinese, dopo tre giorni di tutto esaurito e di fragorosi applausi, la Qatsi Trilogy, musicata dal vivo naturalmente con l’ensemble di Glass al completo. Iniziata già negli anni Settanta e conclusasi all’inizio del Nuovo Millennio, con una lunga gestazione per via delle molte riprese lungo l’intero Pianeta, la trilogia filmica di Reggio – Koyaanisqatsi (Vita squilibrata, 1983), Powaqqatsi (Vita in trasformazione, 1988), Naqoyqatsi (Vita come guerra, 21002) – diventata subito famosa grazie alla perfetta simbiosi con le partiture di volta in volta folcloriche, ritualeggianti, iterate, quasi ripetitive, ma in graduale crescendo, con forti richiami all’Oriente e all’Africa, che il noto compositore minimalista quindi presenta in Italia con una formazione di undici elementi.
L’insieme diretto da un altro compositore, Michael Riesman, oltre Glass al piano elettrico, comprende soprattutto tastiere elettroniche e percussioni tribali: gli effetti sinfonici o al contrario etnici che spesso si alternano nelle sequenze del secondo e terzo lungometraggio vengono predisposti da computer e sintetizzatori, senza nulla togliere al fascino della performance. E forse proprio l’esecuzione dal vivo, anche se non perfetta nel sincronizzarsi con le immagini tra due sequenze, risalta la parte più brillante e meno datata di un cinema che purtroppo da allora a oggi viene fortemente saccheggiato e frainteso, soprattutto dalla pubblicità visiva e dal dilettantismo pseudo-autoriale. E scambiandosi spesso i ruoli, tanto la réclame autoriale quanto il documentarismo effettistico purtroppo si servono dei guizzi di Reggio (montaggio, campi lunghi, ralenti, accelerati, eccetera) e delle virtuosistiche evoluzioni della colonna sonora alla rincorsa della parte visiva fautrice di un generico pacifismo diretto forse più a cercare gli archetipi dell’uomo che a lanciare una critica al presente.
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