Bertha, venuta coi cavalli.

Non so dov’era Praga di quei tempi, so neanche quale strada si prendeva. Qualcuno mi ha detto che allora da queste parti che sono in Lombardia ci si poteva arrivare senza mai uscire da un bosco. Forse vero, forse no; quanto basta per darci dentro col mistero di certe vite sempre in bilico tra miracolo e leggenda, con quel tanto di tribale, lingue strane, abitudini ancestrali, che mai guasta per capirci un po’ di più. Di noi stessi innanzitutto.

Di quei tempi, tra le mani non ho niente. Niente foto, nessun oggetto, nessuna tomba, nessuna superstite traccia: solo un nome. Achille. Achille come Delio, Oreste, Annibale, Fermo, Olmo, Primo, Secondo, Duilio, Baldo, Arnoldo, Amalio, Adelmo, Anselmo, Sante, Folco, Teresio, Sigismondo, Ermanno. Nomi ormai del tutto ignoti, resi vento e pula marcia dalla macina della storia. Il che vuol dire andà indree de cent e passa anni in queste contrade di bassa piana.

Anno 1890 o giù di lì. L’Achille è uno che di cavalli, de tir, de bara e de biròcc, se ne intende eccome. Sta di mezzo. Tra chi compra e chi li vende. Valuta, consiglia, s’intaglia degli inganni, calibra l’affare, giusta il prezzo. Di un cavallo conosce tutto. Dalla merda al galoppo più sfrenato. L’Achille ha la terza elementare. Parla solo in dialetto. Ma all’occorrenza tira fuori un buon francese e il tedesco quel che serve in abbondanza per la vita che gli tocca. Lui gli tocca bamblanare per le fiere dei cavalli, lungo e in largo quei millanta di sudore e di commercio che traverso i tortuosi labirinti d’Europa mena il sale, carne, vacche, bej cavalli, per i campi dell’eterno contadino.

Seguendo le piste dei sauri e dei bai, l’Achille guarda al nord, oltre l’Alpe, il confine tra le terre di pianura e le valli coltivate da Alemanni e Baiuvari, quelli che da sempre lì gh’hann cà, fen, tantapaja; e tra loro i molti altri: con il cielo come tetto, la strada dentro il sangue, il mestiere della vita tra le mani e in nessun luogo. Questi, sono gli Jenische. Di loro, nulla si sa con certezza, nulla di chi siano davvero. Sono gli Weise Zigeuner, gli zingari bianchi.

Con le loro baracche variopinte menate in giro da cavalli strapelosi, abitavano una terra sterminata: Baviera, Svizzera, Tirolo, l’Assia, l’Alsazia, i primi valli fiamminghi; una terra il cui solo confine era il germanico roco, i dialetti catarrosi dei clan che vengono dai Cimbri e dall’Arminio. Da sempre eran lì. Da sempre parlavano quel loro strano linguaggio, vecchio quanto il rame decorato delle pignatte di cui erano famosi. Tedesco, sì. Ma altomedioevale, con dentro sbriciolate parole perdute nei tuguri dei tempi. Chi li avesse partoriti nessuno lo sapeva. Alcuni, davan loro come madre la guerra dei trent’anni; in quella, i contadini scacciati dalle bande di bislacchi inferociti che avevan reso brusa e brulla gran parte di Germania. Altri, dicevano fossero gli estremi testimoni delle infinite carovane di tribù che per secoli hanno girovagato per l’Europa centrale in cerca di terre e mestieri. Nessuno ha mai dimostrato alcunché. Gli Jenische vengono dal nulla, ci vanno volentieri.

Ed è così che l’Achille ha scavalcato le montagne, traversato le pianure, su, su, di là del Danubio un bel tòcch, per rivà nella terra dei Boemi. Seguiva i cavalli; i denti, gli zoccoli, i muscoli, gli stinchi, il lustro del pelo. A lui non interessavano chiese e monumenti. Voleva l’odore di bestia, quel tanfo che solo la carne sudata, la bava, il nitrito, può dare; sentirselo dentro nel sangue più fitto. Alla grande, la fiera di Praga, glielo avrebbe donato.

Lì ci son tutti: Sassoni e Svevi, bianchi come il latte munto appena, Magiari Csikòs con le fruste che schioccano canzoni, Casciubi dai grandi cappelli di feltro, Bosgnacchi, Ruteni, Ladini, Slavoni, Slovacchi, Frisoni. Ognun d’essi è una tribù. Nessuno parla l’identica lingua, ma tutti capiscono l’altro accanto. Lì, venuto dalla bassa provincia di fango, briganti e zanzare, anche lui.

Alla pari, occhi negli occhi, man nella mano, si vendono i sauri dai crini più chiari, stalloni addestrati alle redini lunghe, alla fatica più nera. E via dopo il giorno che arriva la sera. Si accendono i fuochi. Si mangia, si canta. E’ lì che la vede, l’ammira. Non credo che abbia nemmeno vent’anni la fioeula, di certo è senz’uomo. Sta accanto a un fuoco in là. Intorno, sono i carri variopinti, più in là la mandria dei cavalli. Con quelli son venuti. L’Achille li riconosce. Hin singul, zingari che vanno dove meglio si può stare. Ma Zingari diversi. Le donne han vesti bianche e bianca hanno la pelle. Cantano gutturali che molto somigliano alla lingua di tutte quelle terre attraversate. Suonano a passo di walzer. L’Achille ha un coraggio de faccia de tòlla. Presto si alza, va verso quel fuoco, batte le mani a tempo di danza, fissa la bella, lei lo ricambia. Ha lunghi i capelli e neri, grigi gli occhi di quella sorta di nebbia che al mattino si discioglie in terra nuda. Ride, beve, luccica sorrisi. Dietro di lei nitriscono cavalli.

Il giorno dopo, l’Achille punta dritto. Comprerà dei cavalli, venderà la sua innocenza, dormirà con una donna, con lei farà dei figli. Insieme ai suoi compari, si avvicina alla mandria zigana. Gli Jenische han bej cavalli, fòrt, piantaa coi sòccor giù per terra. Li fissa, li ammira. Quanto basta per farsi un crocchio, lui, i suoi, e quegli uomini tanto strani quanto buoni a farsi un vanto della vita. Che per loro è affatto grama. Fanno ceste di vimini le migliori. Battono il rame. Lavorano l’argento. Nelle feste contadine sono i benvoluti suonatori di fisarmonica e violino. Sono leali, indipendenti. Sono una libera tribù. Tra loro, l’Achille smiccia la bella della sera appena prima. Ancora, lei ricambia. Tanto basta per chiedere del padre. Il padre si presenta. E’ un Obelix rubizzo con i baffi unti di birra e cosciotti di maiale.

Quella sera, attorno al fuoco, sfrigola la carne e taca il tacabanda dei violini più bislacchi. La grande fiera l’è ‘dree finii. Dopo aver fatto pesta la terra intorno a Praga, mille e mille zoccoli si disperderanno per tutte le valli d’Europa. Ogni tribù tornerà dov’era prima, tra gli argini, i fossi, nel brugo, una accanto all’altra, stessa terra, stessi buoi, stessi zoccoli che pastrugnano la terra da sfamarci una famiglia. Anche l’Achille l’è ‘dree ‘ndà cà. Con lui, ora, ha la sua bella.

Si chiama Bertha. Crine nero ed occhi grisi, parla una lingua che nessuno la capisce. Ha dita lunghe, intelligenti, gambe forti che san sempre dove andare.
Quando l’Achille e la sua fioeula ritornano al paese, la voce la si sparge in un baleno.

“L’è vegnuu indree, l’Achille l’è tornaa! ‘l s’è menaa ‘dree ona foresta! L’è bella, l’è bella! Vuna inscì l’emm mai veduu!””
“Ma doe l’è che l’è andaj a toeula? Che vestii l’è che la gh’ha su? E parlà se che la dis? Sa capiss no, capiss nigòtt!”
Ben presto, tutti capiranno tutto.
Bertha, la Jenische venuta coi cavalli, sarà amata, rispettata. Uno dietro l’altro, gli usciranno tre figli che neanche te ne accorgi. Tra loro, l’Antonio, avrà una bambina. E’ Lucia. Mia madre.

Luis Balocchi

 

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