Canadian pulp; tre cover da Michael Redhill

(Per i testi originali, vedere: https://canpoetry.library.utoronto.ca/redhill/index.htm )

POLAROID DI UN SALICE

Trattenuto dal sole nella foto scattata
dalla mano di un bambino, l’albero
ricurvo si piega a un vento trapassato
tanto scosso che l’aria ne trasuda
ancora. Vorrei dimenticare la memoria
svapora, questo dazio cellulare:
il modo in cui le ossa del reale cadono
a pezzi tra mani sapute e se ne liberano

una buona volta. Quanto a lungo
l’albero ha vissuto, quanto si è mantenuto
qui, aggrappandosi al ciglio della forra prima
comparissimo e iniziassimo a sopravvivere

nei modi predisposti, fingendo ogni cosa
sarebbe andata a posto, migliorata,
saremmo cresciuti più forti, sentendoci
giusti in sprezzo al mondo.

Questo l’eterno scherno del ricordo, l’urlo
a chi se n’è andato senza avvertire; sapendo
queste prime visioni non avere ancora preso
il largo, avrebbero potuto avvisare.

Adesso manteniamo la posizione, stiamo
vigili, scuotiamo via la fede fanciullesca
che fa brillare gli occhi a cose a malapena
viste e appiccicargli il nome

di ramo e tronco e foglia.
Questo il salice alla lente del bambino,
e perché sembri un albero molto più
degli alberi che conosco adesso. Sotterra

il salice del film ha le radici, allora immaginavo
molto altro, non mi preoccupava “il vero”:
era ogni albero e ogni tempo, un panorama
inviolato da ricordo e esperienza. Mai più.


 
IL FIUME PERSO

I

Le strade e i giardini
gli sono chiusi sopra, un filo
che sparisce in un albero. Gli irochesi
gli avevano dato un nome, ma non lo conosco
ora, conosco soltanto il suo cammino sotterraneo
dal salice accanto casa tua.
Dopo un acquazzone gelido può trasudare
come sangue attraverso una garza, gocciolare
lungo la strada. Il fiume perso
brama ritornare al suo vecchio livello. Ma più che altro,
ne incontriamo lo spettro: un’impronta stampata
sopra una curva obesa scavata fuori dal parco,
pietre tombali che gli incoronano la fronte
vicino il campo di trifoglio dell’aeroporto.

II

Il corpo non prosegue,
si seppellisce nella carne. Tane
di vecchi tagli, riposano sottopelle
come punte di freccia. C’è uno spiazzo
serico sopra il tuo ginocchio dove s’incastrò un chiodo.
La sua puntura di acciaio ultrasottile si propaga
nell’increspatura paralizzata di una foto
di un pesce preso al balzo, trattenuto.
I nostri esili affluenti trasportano
la cura, allontanano lo sfacelo,
lasciano le loro scie e spirali.
Una lucidità azzurrina
resta in superficie.  

III

In Harrison Street, sostiamo fermi
sotto il salice pallido, addolorata 
che non abbandona le tombe. Al di sotto, 
le sue radici scavano a fondo, portano la voce di un morto 
a fiorire nell’aria. Prendiamo l’acqua, sediamo nella vasca.
Quella che ci lava sfocia nel posto dove il fiume
ricorda le nostre vite nascoste: qui, un salice
cresce dal mio polso, la tua mano 
si immerge nel lago e l’acqua straripa 
lungo il tuo braccio e le tue dita. Il fiume 
ci ha dato un nome, ma non lo conosciamo 
ora. I nostri corpi distesi nel letto scolpiscono la fenditura
che il fiume ha lasciato attraverso il parco. 

NIGHTDRIVE

Le sue promesse si rivelano di notte, 
come un gelsomino che decora di petali il buio,
la strada scura. Sul parabrezza
luminose insegne al neon
PARCHEGGIO
HOPPER MOTEL
CUCINA SEMPRE APERTA
fanno bruciare le loro offerte nel vasto blu che le circonda
come un cherubino.
Guidare in notti come questa è entrare nel nuovo mondo, 
quello che avevano sognato, alberi che si piegano nell’inchiostro
come visi affacciati sopra una culla. È qui, 
quell’America fantasima, e ancora 
li desidera, ancora
vorrebbe rivelargli
il suo nuovo splendore. Come è facile
amarla in una notte tiepida come questa, dimenticare
tutto quello che vi è già accaduto, tutto quello
che sta per accadere.