Capitolo III

Si racconta che Amato da piccolo fosse bellissimo, avesse capelli d’angelo sottili e biondi, un fisico da efebo diafano e flessuoso, il collo lunghissimo che pareva disegnato dal Parmigianino, delle dita così affusolate da entrare nelle serrature delle porte e due occhi… due occhi così celesti come un mare finto. Ed era di una delicatezza esasperante – cosa che si è accentuata negli anni – cadeva al minimo refolo di vento che giungesse da una finestra mal chiusa, si ammalava di raucedine con una frequenza indisponente, non mangiava quasi niente, se si eccettuano degli enormi rotoli di zucchero filato che costringeva sua madre a comprare al mercato. La sua complessione, così esausta, così antipatica e ricattatoria, gli procurava delle frequenti e meritate punizioni, tanto che veniva rintanato in soffitta dove – pare – ha iniziato a elaborare le prime cosmogonie portatili credendosi Leopardi, le prime corrispondenze tra micro e macrocosmo, e dove suonava indefessamente una spinetta Bontempi regalatagli per un Natale dal nonno.

Ma sono tutte voci di corridoio, di quel corridoio lunghissimo che è la sua casa e che si sentono tendendo l’orecchio quando non c’è nessuno, cioè quasi mai, voci che si fanno strada nel cervello quando cessa lo sferragliare di Adelaide in cucina o quando finalmente, e per un caso strano, la masnada odiosa di tutti i suoi figli maschi e femmine ha sbattuto per l’ultima volta il portone di casa e se n’è andata per i fatti suoi, attirata dallo struscio cittadino e dalle altre mille svagataggini della gioventù viareggina.

Allora, in quell’improvviso e quasi pauroso silenzio, Amato esce da una porta e mostra allo sbigottito ospite la foto di un bambino che pretende essere lui: l’unica prova certa della sua infanzia, dice. Ebbene, quella foto è tutta il contrario di ciò che dicono le voci del corridoio. Ciò che si vede è un robusto bambinotto con i capelli corti, lo sguardo vispo, ben saldo sulle cosciotte che affondano a metà nell’acqua del mare, e che tiene per il collo un’oca di plastica fatta a ciambella come volesse strozzarla. La foto è falsa? Lui assicura di no. Eppure sembra l’ennesima mistificazione. Oppure mentono le voci.

Senza titolo

Amato su Laverda

E poi, senza passare per l’adolescenza, che è venuta dopo e non è ancora finita, Amato piombò nella gioventù. Venne il tempo della moto Laverda 1000, la più grossa e potente della scuderia, dal serbatoio enorme verde metalizzato e dalla sella lunga, bombata in fondo come a far spiovere l’aria. E Amato una volta sfrecciò sulla Bretella a 180 km/h, come un pazzo, per andare da nessuna parte, solo per sentire il rombo di quel motore mostruoso dagli scappamenti cromati. Era un’estate dei primi anni Settanta e il vento gli vorticava addosso quasi a strappargli la maglietta che gli scopriva tutto il cotrione mentre sorpassava a grappoli le macchinine sulla corsia normale, inebetite. Partito da Viareggio e arrivato a Lucca in pochi minuti, troppo pochi per non dare nell’occhio, probabilmente se ne tornò a Viareggio facendo la provinciale del monte di Quiesa, più per vergogna, che per timore di essere individuato dalla polizia.

E allora dov’è questo bambinello angelico dai capelli fini come spaghettini? Dov’è questo fragile Leopardi che le voci di corridoio vogliono propinarci? Io non lo so dov’è, e a questo punto me ne infischio. Scrivo queste note nelle mie notti insonni, quelle sì matte e disperatissime, mentre sento le porte del condominio in cui vivo chiudersi una ad una, la coppia del piano di sotto mugolare nel letto, le macchine giù in strada farsi sempre più rade sotto la luce arancione dei lampioni che entrano fin dentro casa mia e ci restano fino al mattino, quando i temporizzatori crepuscolari vanno finalmente a dormire e io con loro, esausto, per un’oretta prima di entrare a lavoro.