Capitolo VI

Durante la lunghissima degenza di Adelaide, Amato era libero di rimanere in ambulatorio più a lungo, non dovendo rispondere ai richiami imperiosi della consorte, la cui permanenza in un letto d’ospedale, tuttavia, muoveva spontaneamente il poeta al suo capezzale, ma senza orari fissi, senza scadenze precise: il reparto in cui era ricoverata permetteva un’ampia libertà di movimento ai visitatori.
Fu così che iniziai a lasciare Amato solo nell’ambulatorio, visto che poteva godere della compagnia delle voci. Poteva essere una variazione nel nostro gioco di ruolo psichiatrico. Mi parve che ciò gli giovasse, visto che iniziò a scrivermi lettere in cui traspariva una certa riconoscenza, cosa abbastanza rara in lui, incline com’è all’insoddisfazione e, oserei dire, all’ostilità nei confronti di chiunque gli proponga soluzioni terapeutiche al suo male di vivere. Perché mi scrivesse e non mi parlasse a voce, non l’ho mai capito bene, forse era per marcare comunque una distanza o, forse, al contrario, era un modo per mantenere un contatto con me anche quando mi assentavo dall’ambulatorio. Avrebbe potuto alzare il telefono, ma lo faceva di rado, sostenendo di non amare il suono della voce nella cornetta. Dunque, preferiva scrivermi e una volta, per esempio, mi mandò una missiva di questo tenore:

Senza titolo

 

Voglio ringraziare la Direzione per questo modesto ambulatorio. In realtà avrei potuto stabilirmi in un locale più grande, più bello, più accogliente, più ricco e meglio frequentato. Dico “in realtà” ma lei sa bene (almeno per sentito dire) che la realtà non esiste e che anzi il cosiddetto “principio di realtà” non è altro che una forma cronica (cioè non acuta) di quello che è il Principio Universale di Derealizzazione. Che cos’è che crea un vero paziente? Che cosa lo spinge a varcare la porticina dal vetro smerigliato del mio ambulatorio? Glielo dirò io: la paura che una forma di encefalite cronica diventi acuta. Parlo naturalmente di encefalite in senso figurato. Di encefalite ecumenica. Vale a dire gastrica reumatica pneumologica urinaria e perfino genitale. Sì, perché la malattia mentale, cioè l’acutizzazione di una derealizzazione che era silente (ossia allo stato cronico) è una condizione metapatologica che investe il paziente nella sua interezza catastrofica. In pratica è una summa di catastrofi naturali che spianano l’animo del paziente fino alla cosiddetta “tabula rasa junghiana”. A questo punto uno psichiatra avveduto che cosa deve fare? Io credo che la prima cosa da fare sia scansarsi dal luogo del disastro. E qui c’è il classico “tranfert di interdizione passiva” che consiste nell’attirare sessualmente il paziente e poi fargli lo sgambetto. Sembra una cosa crudele invece noi psichiatri utilizziamo questo metodo tutto sommato incruento per stimolare la reattività del paziente verso le frustrazioni primarie. Il paziente si deve consolare pensando che il principio di derealizzazione farà da cuscinetto tra il suo io (freudianamente polimorfo e perverso) e la frustrazione primaria che grazie al nostro calcio terapeutico si troverà costretto a subire.

Altre volte il tono era più malinconico e, sotto un’apparenza di euforia, si faceva strada la nostalgia del tempo andato della fanciullezza:

Eh sì, la vita ridacchia quando uno finalmente ha un ambulatorio. I pensieri sono più torniti, e quelli acciambellati hanno un buco perfetto, come quello che mia nonna Assuntina faceva nei buccellati con un bicchiere. Me lo diceva mia nonna Assuntina:“Da grande avrai un ambulatorio piccolo ma molto decoroso. Ti metterai lì comodo, sul cavallino a dondolo, e aspetterai i pazienti. Come quando nonno Alberigo fa finta di pescare sul molo con la sua canna giocattolo e con un filo grosso come un bucatino. Certo i pesci non brillano d’acume, infatti, quel barbagianni ne porta a casa (tutte le sere) almeno una dozzina, come le uova. Chissà perché le uova nascono tutte a dozzine… In fondo non ci avevo mai pensato…”. Sì, Assuntina è stata la mia prima paziente. Aveva le visioni come sua madre Annunziata. Il ramo femminile era davvero molto contorto. Secondo me c’erano stati degli innesti sbagliati. Sì, perché il mio bisavolo Efisio, giardiniere di Boboli, innestava un po’ a caso e quasi sempre con la luna di traverso. Ecco, come dico “luna” mi prende una malinconia tremenda, da stramazzare. Forse mi viene in mente la buonanima di mio nonno, Gigino il barbiere, che era licantropo. Non so, mi sento quasi mancare. Sì manco. Manco all’appello. Ma poi mi chiamano? Io non sento nessuno lì dietro, dietro la porta dal vetro smerigliato. Allora penso: e se l’ambulatorio fosse dall’altra parte? Se avessero scritto Nedo Vannini Psichiatra dalla parte sbagliata? E se io, ad esempio, fossi la signora Percalli?
Qui la solitudine è vasta e silenziosa come una coltivazione di cotone idrofilo. E io? Non ho nemmeno una caramella di menta, né un lassativo. Ho i cassetti tutti pieni di tranquillanti.