Capitolo VII

Tuttavia, il gioco si fece serio e Vannini iniziò davvero a ricevere pazienti. O meglio, dava consulti epistolari, rispondeva alle domande di aspiranti pazienti con lunghe lettere. Come avesse fatto a spargersi la sua fama di psichiatra per corrispondenza non mi è chiaro. Al vetro smerigliato di quella porticina laterale seminascosta, avevo apposto un cartellino con una laconica scritta: Dottor Vannini Psichiatra. Ero certo che nessuno ci avrebbe fatto caso, al massimo qualche condomino che, eventualmente, avrebbe chiesto informazioni a me. Invece si era creato tutto un movimento di seguaci che chiedevano consulti per sé e per i propri cari.

Senza titolo

Nel frattempo io cercavo di conquistare la figlia maggiore di Amato, la bellissima Adornata, ormai in età da marito, approfittando dell’assenza del padre e della madre. Mi presentavo da Adornata con le scuse più varie. Innanzitutto mi vestivo da giovane, con dei jeans che mi cascavano dal culo per parecchi centimetri e con delle camicine attillate o, al contrario, larghe all’eccesso. In piedi avevo sempre un paio di scarpette di tela, tipo All Stars, o simili. La testa era un capolavoro di geometria e lacca: visti i miei capelli piuttosto radi, evitavo creste gelatinose o sporgenze smodate, optavo piuttosto per un ampio riporto lisciato in avanti che mi conferiva, sulla facciata anteriore, appunto, un aspetto vagamente emo, mentre sul retro dava luogo a qualche sbancamento, per cui – benché il mio lato migliore sia il profilo – ho sempre cercato di mostrarmi di faccia ad Adornata, il che dava luogo a una certa rigidità di movimenti.

All’inizio fingevo di andare a trovare suo padre, cosa che sorprendeva sempre Adornata e le faceva dire: «Ma non era con te in ambulatorio?» E io rispondevo confusamente che me ne ero dimenticato o che quel giorno lì non ero passato a controllare. Però era chiaro che dovevo cambiare strategia, anche perché le risposte di Adornata erano piuttosto brevi, non secche e sgarbate, ma brevi sì e le nostre conversazioni si spengevano così sull’uscio della casa. Allora una volta passavo chiedendole se aveva da portare qualcosa a suo padre o a sua madre, visto che stava vivendo una condizione di orfana temporanea, benché attorniata da un nugolo di fratelli e sorelle che strepitavano alle sue spalle e, probabilmente ridevano anche di me. Un’altra volta mi offrivo di farle qualche commissione in centro, sempre che ne avesse da fare, e non ne aveva mai. Insomma, stavo per diventare una presenza molesta, quando un giorno, essendomi informato sui suoi studi, mi offrii di aiutarla a preparare l’esame di glottologia, verso la quale – mi confessò – nutriva un’avversione senza pari. Io, a dire la verità, l’unica cosa che ricordavo di glottologia dai tempi dell’università era il nome di un glottologo, Graziadio Isaia Ascoli, e qualcosa sul rotacismo che non andava confuso con l’erre moscia. Ebbene, grazie a Graziadio e al rotacismo, Adornata mi socchiuse la porta di casa, e potei di nuovo entrare in quel lugubre corridoio visto altre volte, sul quale si affacciava la stanzetta di Adornata, una cameretta da adolescente cresciuta che affastellava vestigia infantili e recenti testimonianze di vita universitaria: pupazzetti di peluche, foto con amiche e amici, bottiglie di birra scolate e conservate in memoria di qualche epica serata, dispense rilegate, volumi allineati sugli scaffali, fotocopie sparse ovunque.

Ecco, dunque, che mi si presentava l’occasione di stare a tu per tu con Adornata, ma la mia testa era assai poco incline alla glottologia e, soprattutto, non sapevo su quali specchi arrampicarmi per mantenere un minimo di credibilità. A quel punto cercai di convincere Adornata dell’inutilità dei suoi studi e, più in generale, dell’inutilità del linguaggio umano, sostituibile, ad esempio, con il linguaggio musicale, come sostenuto dal novelliere francese Jacques Cazotte, il quale, a metà del Settecento, raccontava di una certa Fior di Mirto che, alla ricerca del suo amato Enguerrand, approda sull’isola dei Melologhi, i cui abitanti hanno perso l’uso della parola per via di un incantesimo, ma la sostituiscono egregiamente con gli strumenti musicali. Trassi di tasca l’edizione completa in diciotto piccoli volumi dell’opera di Cazotte e lessi ad Adornata tutta la storia di Fior di Mirto.

Dopo un’ora buona di lettura, mi accorsi che Adornata era letteralmente caduta ai miei piedi, addormentata. Non era una fanciulla facile da conquistare, soprattutto per via di questo sonno che la prendeva invincibilmente e che, oggettivamente, spuntava le armi del pretendente di turno, a meno che non si trattasse di un bruto che volesse oltraggiarla proprio in virtù del suo torpore. Ma per fortuna non ne incontrò mai. Anche perché io stesso mi eressi a paladino della bella addormentata e, ogni qualvolta mi si addormentava ai piedi, la vegliavo fino al momento in cui riapriva gli occhi, cosa che spesso accadeva dopo lunghe ore, essendo dotata di un sonno profondissimo. Questi addormentamenti si verificarono più volte, a prescindere dal racconto che le leggevo: Vita, morte e resurrezione del monaco Berengario, Opinastro re dei Goti, Il Millepiedi notturno… tutte storie bellissime e di chiara fama, che però avevano su di lei un effetto tremendamente soporifero. Era bella da guardarsi con le palpebre che le serravano gli occhi come saracinesche, quegli occhi affusolati, un po’ medio orientali e grandissimi, e quella testa di capelli ricci e lunghi, quasi da Medusa, che mi trovavo attorcigliati ai piedi. Adornata era un dono della natura, ma un dono sfuggente, un dono che non si sapeva a chi fosse destinato. E di certo non a me, che avevo il doppio dei suoi anni e mi facevo il riporto da emo.

Adesso che sono qui a rammemorare l’incanto di Adornata sono preso da uno struggimento indicibile e mi tornano in mente altri amorosi dettagli che finora ho cullato nello stomaco come vermicelli all’ingrasso. Per esempio la sua parlata inguaribilmente viareggina, strascicata, buttata via, lontanissima dall’eloquio da Dulcinea che avrebbe richiesto il suo viso. Eppure io ne ero perdutamente innamorato e consideravo come un dono divino ogni suo minimo sguardo, ogni sua più piccola attenzione verso di me, ogni dialogo fosse pure di poche parole.
Purtroppo, però, la letargia che i miei racconti le inducevano si rivelò un ostacolo insormontabile e, dopo tre mesi di tentativi, abbandonai l’amoroso campo di battaglia.