Capitolo VIII

Dopo diversi mesi di degenza, Adelaide fu dimessa dall’ospedale e fece ritorno a casa. Sulla sorte di Amato-Vannini, invece, era difficile pronunciarsi. Si era chiuso nell’ambulatorio e aveva cambiato la serratura, cosicché io non potevo più entrare. Io da fuori gli urlavo:
– Ma che fa? Sono il Trasciatti! Perché si è chiuso dentro? E’ ammattito?
Ma lui niente, taceva. Sentivo però raspare, spostare mobili, picchiare, forse picconare. Gli dicevo:
– Vannini, che fa? Si scava la fossa?
Ero preoccupato. Tutti i giorni tornavo e tentavo di farmi aprire, ma senza risultato. Poi, ecco che una mattina mi passò una busta sotto la porta. La busta conteneva una lettera. C’era scritto così:
Vede Trasciatti, io non saprei come spiegarglielo… in realtà io non scavo: dissotterro.
È fondamentale la differenza, sa? Dissotterro altra terra. Non è che voglio fare un buco, capisce? Voglio andare alle origini dell’ambulatorio, andarci proprio dentro, perché scavando scendo anche per chilometri. La terra la metto ordinatamente tutta intorno allo scavo. Infatti, se io la facessi entrare, Trasciatti, lei vedrebbe una specie di torre di terra. Lì dentro ci sono io, ma in fondo, proprio in fondo.
 Il lavoro di scavo in sé non sarebbe nemmeno tanto faticoso, se non dovessi risalire continuamente lungo le pareti di terra per ammassare altra terra in cima alla torre. Direi che è un Lavoro Celeste e nello stesso tempo Terrestre. Un Lavoro Assoluto che qualcuno deve pur fare. Certo a volte mi chiedo: ma perché proprio io?

Senza titolo

Da quel giorno i rumori cessarono. Niente più raspamenti, colpi, picconate. Sull’ambulatorio scese un silenzio di tomba. Il Vannini forse si era dissolto in un buco. Lasciai passare alcuni giorni per vedere se ricompariva. Ma non ricomparve. Tuttavia non ero convinto. Ero propenso a credere che, nonostante questa storia dello scavo, fosse ancora nell’ambulatorio, magari in forma fantasmatica, ma mi sembrava improbabile che se ne fosse andato via da un buco, come l’acqua da un lavandino.
Mi ricordai che per costringere a rivelarsi un fantasma, una presenza, uno spirito, bisogna porre in una stanza uno specchio e passarci davanti ripetutamente, in varie ore del giorno. Se, anche solo per un attimo, non riusciamo a vederci nello specchio, vuol dire che tra noi e lo specchio c’è qualcosa, qualcuno, la presenza che si ricercava insomma. Ecco, volevo mettere uno specchione nell’ambulatorio medico per vedere se riuscivo a catturare la presenza fantasmatica di Vannini, che sicuramente era lì che si aggirava in silenzio, muto, senza più parole, annichilito. O magari lo faceva apposta, perché è sempre stato un frignone, uno che si compiace di sguazzicchiare nella propria frigneria da cuciniere con le ditina scottate dall’acquina calda quando ci tira li spaghettini, numero 0,01, son quelli finissimi, capelli d’angelo si chiamano, infatti a volte se li mette pure in testa per fare la vittima.

Ma lasciai perdere gli specchi, che in fondo son pericolosi se si rompono, avrei fatto invece l’esperimento della ciotola del latte, mi pareva più pratico. Avrei sfondato la porta e avrei messo una ciotola di latte nell’ambulatorio. I fantasmi sono ghiotti di latte, lo dice tutta la letteratura ecto-medicale, da Maupassant, a Charcot, a Bergson. Insomma, avrei messo questa ciotola ed ero sicuro che in capo a una giornata l’avrei trovata vuota. E siccome avrei poi sigillato l’ambulatorio a tenuta stagna, non avrebbe potuto essere che il Vannini ad aver bevuto il latte. Perché lo sapevo che era lì che si aggirava, lo sapevo, e a volte pensavo che non lo facesse neanche apposta di stare in silenzio, ma che fosse come inebetito dalla vita che gli scorreva da tutte le parti e non sapesse più dove andare, ronzasse a caso, ruscellasse. Ecco, ruscellare è la parola giusta, una volta infatti mi disse “lasciami ruscellare”. Era così, un uomo liquido che non si sapeva più dove si fosse perso, sfatto, scomposto in tantissimi micro-organismi, ma che dico, particelle subatomiche impercettibili anche ai super-microscopi.

Senza titolo

Anche la sua famiglia era preoccupata di non vederlo da così tanto tempo, Adelaide si lamentava di non avere aiutanti in negozio, Adornata si lamentava di dover aiutare sua madre nelle faccende domestiche e anche in quelle commerciali, così che non aveva tempo per studiare, anche perché – diceva – aveva perso un sacco di pomeriggi a dormire ai piedi del Trasciatti che non si sa che uomo sia, uno che fa dormire le donne. Il figlio Ireneo, tutto sommato, era abbastanza indifferente a tutte queste storie e preoccupazioni, lui era occupato a fare serate come batterista jazz e questo gli bastava. Cioè, non è vero che gli bastava, perché di serate jazz ne faceva un paio al mese quando andava bene. Allora aveva aperto un sito di fotografie sexy horror che, invece, riscuoteva un certo successo. Poi non si è mai capito se i mostri e i cadaveri che fotografava fossero veri o finti, se si trattasse di una messa in scena o se invece fosse proprio lui a uccidere le modelle che andavano a farsi fotografare. Comunque era molto impegnato e, tutto sommato, poteva anche fare a meno di quel padre là che stava a cincischiare nel sottosuolo di un garage trasformato in ambulatorio. Gli altri figli e le altre figlie erano troppo giovani e incoscienti per accorgersi di qualcosa.
Così preparai tutto per l’esperimento del latte. In realtà c’era poco da preparare, bastava che il latte fosse fresco e intero, che lo versassi in una ciotola o in una tazza e che aspettassi ventiquattrore. Sfondai la porta dell’ambulatorio. Vidi lo scavo, un buco rotondo come fatto al compasso e un altissimo mucchio di terra che arrivava al soffitto. Mi sporsi nel buco e chiamai. Silenzio. Feci luce con una torcia elettrica, ma non riuscii a vedere il fondo del buco, era veramente una galleria soprannaturale, forse faceva anche una curva. Disposi la ciotola sul bordo dello scavo, la riempii di latte e me ne andai dopo avere rimesso in sesto la porta e averla sigillata col silicone Saratoga. Lasciai passare qualche giorno e, quando tornai, l’esperimento aveva dato i risultati sperati. O meglio, risultati accettabili, diciamo, perché il latte della ciotola, più che bevuto era sparso per terra, segno che Amato aveva inciampato nel recipiente rovesciandone il contenuto. Per me la prova era sufficiente. Il Vannini, in forma di talpa o di fantasma, c’era ancora.