Capitolo X

A dire la verità, anch’io, in gioventù, mi ero appassionato ai trattori Landini. Avevo pure scovato, nell’entroterra di Bellaria, un vecchio collezionista che ne possedeva una cinquantina, tutti schierati in un campo dietro casa, tutti oliati e funzionanti. Era uno spettacolo di bellezza meccanica, un colpo d’occhio fulminante. In quel periodo scrivevo per una rivista di viaggi e volli fare un bell’articolo che parlava di mare e di trattori, così da invogliare i distratti turisti balneari a fare una bella gita d’istruzione dal meccanico di quei cinquanta splendidi esemplari.

Non immaginavo che un giorno i Landini sarebbero rientrati nella mia vita, e soprattutto non immaginavo che sarebbe stato un poeta a farceli rientrare. C’è da dire che anche un altro poeta, Tonino Guerra, non era immune dalla fascinazione dei trattori. Infatti, in una lettera scriveva: E’ un errore, secondo me, credere che il paesaggio che ci circonda sia quello di cent’anni fa. Per esempio: che nella nostra campagna si vedano ancora molti buoi è verissimo, ma fino a che punto si può dire che il bue fa parte del nostro paesaggio se i primi trattori gialli sono comparsi in qualche podere e i contadini si fermano a guardarli e la sera ne parlano? Tonino Guerra guardava la campagna con l’occhio attento ai cambiamenti della vita quotidiana. Non era certo questo lo sguardo di Amato, che della vita quotidiana se ne era sempre sbattuto per puntare dritto all’eterno. Ma era toccato anche a lui vivere, nonostante avesse fatto di tutto per evitare la vita, era toccato anche a lui aprire e chiudere il negozietto di scarpe di Adelaide, ripitturare le scaffalature, servire le clienti, sì, tutte donne che andavano a mettere in mostra le caviglie, ma che dico le caviglie, le cosciotte di fronte a quello sventurato commesso allampanato che le concupiva in sordina. Avesse mai imparato i prezzi delle scarpe. Niente. Per quelli bisognava sentire Adelaide, o Adornata quando c’era. Io l’avevo visto Amato come indisponeva le clienti. Una volta ne aveva scacciata una, tra l’altro una gran bionda, solo perché mancavano cinque minuti alla chiusura. Poteva scapparci l’ultimo acquisto della giornata, magari un accenno di avventura. No. Lui, sgarbato e inflessibile, aveva detto si chiude.

Io non ho mai capito nulla, né di motoristica in genere, né di trattoristica in particolare. E più vado avanti, meno capisco in tutti i campi dello scibile. Invecchio e mi vengono dubbi su dubbi. Apro i libri che ho studiato da giovane e mi sembrano scritti in arabo. Cerco di seguire le questioni di attualità e non ne vengo a capo. Mi pare di non avere opinioni su nulla, non riesco a prendere una decisione purchessia. Amato invece ha sempre sparato sentenze, proferito giudizi inappellabili: i medici sono tutti dei cretini, i critici letterari dei deficienti, la letteratura contemporanea inesistente. Da dove gli viene questa sicumera? Forse dai suoi intrallazzi con l’eterno? Perdo la pazienza quando lo sento parlare in questo modo. E lui parla sempre in questo modo. Per anni gli ho creduto, gli ho riconosciuto un primato, una specie di sesto senso per le cose d’arte. Ma ora non so, non so più. Avrei solo voglia di picchiarlo.

Senza titolo

Ma chi sono io che scrivo queste cose? A volte me lo chiedo, specie quando arriva la notte. Sono un biografo frustrato. Forse anche un poeta frustrato. Io da giovane scrivevo versi. Poi ho conosciuto Amato e ho smesso. Scrivevo cose come questa:

Nei miei lunghi viaggi immaginari
ho visto molte cose, forse troppe.
Adesso non distinguo il sogno e il vero
e parlo come un tartaro efesino.
A Livorno presi il mare per La Spezia,
andavo per diporto e per amore.
Ma adesso piango il fresco della bocca
della mia amata conosciuta in Svezia.
Inseguito da cani e temporali estivi
corro le strade con più frenesia,
poi tiro il fiato, faccio i conti
di quanta vita ho in tasca.

Poi, come ho detto, ho conosciuto il poeta Roberto Amato. E’ stata una folgorazione, un risucchio, un’ondata che ha fatto pulizia. Ho sentito una tale sintonia, una tale concordanza d’immaginazione e di dolore e di divertimento verbale e di stravolgimento del senso comune da farmi credere, in un primo momento, che quelle poesie fossero mie. Sì, con presunzione, ho pensato di averle scritte io. Mi sono talmente immedesimato da pensare di aver trovato il mio sosia, il mio doppio. Ma l’illusione è durata poco, presto è stata sostituita dallo scoramento. La profonda leggerezza di Amato era inattingibile. I miei versi mi sono sembrati volare basso, rasoterra, pesanti. «La poesia è una questione di canto», mi disse una volta Roberto. Gozzano non gli piace perché non canta, canticchia. E i miei versi cantano? No, non cantano. Anche se questa questione non è che la capisca bene. Ma proprio per questo ho pensato di non essere portato per i versi, perché ci vuole un orecchio come quello dei musicisti, che colgono nei suoni sfumature impensabili. E Amato ha un passato da musicista, l’ho scoperto per caso, un giorno che lo sorpresi nella sua casa-corridoio ad arpeggiare un’aria di Bach sulla chitarra classica. Non parla mai di questo suo passato musicale. Tutto è vago, respinto in un limbo antico, che quasi non gli appartiene più. Raramente le sue mani si accendono sulle corde, come, appunto, quella volta di Bach. O un’altra volta, in un negozio di musica, quando lo sentii accennare un bel blues su una chitarra elettrica. Ma insomma, se la poesia è roba da musicisti, ho pensato, è bene che lasci perdere perché musicista non sono. E così ho fatto, ho appeso la cetra al chiodo.